domenica 22 giugno 2014

22.06.2014 - Commento alla prima lettera ai Corinzi cap. 10, par. 2

2. Gli Ebrei, nella liberazione dalla schiavitù egiziana, parteciparono tutti alle grazie che Dio loro compartì eppure non tutti vi corrisposero e furono grati a Dio, rimanendo esclusi dalla terra promessa.
Nel capitolo precedente san Paolo, con l’esempio del corridore nello stadio e del lottatore nell’arena, aveva esortato i Corinzi a sacrificarsi anche in ciò che di per sé era lecito, pur di salvarsi l’anima e cooperare alla salvezza degli altri. In questo capitolo egli comincia col far loro rilevare che non basta essere cristiani di nome ed essere aggregati alla Chiesa per salvarsi, ma bisogna vivere da cristiani ed essere gelosi della propria fede di fronte ai pagani tra i quali vivevano. Egli argomenta da ciò che avvenne agli Ebrei peregrinanti nel deserto dopo essere stati liberati dalla schiavitù dell’Egitto, e si serve di questo argomento, perché quello che accadeva agli Ebrei era figura di ciò che sarebbe accaduto alla Chiesa. Non voglio che voi ignoriate, o fratelli - egli esclama - che i nostri padri furono tutti sotto la nube, e tutti attraversarono il mare, e tutti furono
battezzati in Mosè nella nube e nel mare, e tutti mangiarono del medesimo cibo spirituale, e tutti bevvero la stessa bevanda spirituale, perché essi bevevano dalla pietra spirituale che li accompagnava, e quella pietra era il Cristo, ma Dio non si compiacque nella maggior parte di essi, poiché furono prostrati a morte nel deserto.
Gli Ebrei erano accompagnati da una nube misteriosa, che di giorno, nel loro viaggio attraverso il deserto, li difendeva dai raggi del sole e tracciava loro il cammino (Es 13,21; Sai 104,39; Sap 10,17, 19,7). Quella nube li unificava tutti come un sol corpo a Mosè, loro condottiero e loro mediatore presso Dio. Tutto il popolo, poi, sfuggì all’inseguimento dei suoi persecutori, attraversando miracolosamente il Mar Rosso (Es 16) e, in quell’acqua che miracolosamente faceva loro da tutela come con due muraglie a destra ed a sinistra, quella moltitudine si sentì ancora una volta unita a Mosè che la guidava, incorporata a lui, a Dio, la cui potenza gli aveva fatto aprire il varco in quel mare.
Nel deserto, attraverso il quale gli Ebrei si avviarono verso la terra promessa, furono tutti cibati dalla manna, cibo chiamato spirituale, perché disceso miracolosamente dal cielo (Es 16,15; Sap 16,20-21; Sai 77,24), e furono dissetati con le acque sgorgate prodigiosamente dal vivo sasso a Refidim, nel primo anno dopo l’uscita dall’Egitto (Es 17,6), e nel deserto di Sin nell’ultimo anno (Nm 20,8). Queste acque sono chiamate spirituali perché scaturite da un arido sasso per divina potenza, per la potenza di Colui che nei Sacri Libri è chiamato la pietra, la roccia, il Verbo di Dio, Dio come il Padre e lo Spirito Santo, per cui tutto fu fatto, e che con la sua potenza seguiva il suo popolo operando a suo favore le più grandi meraviglie; il Verbo di Dio, che si sarebbe incarnato per accompagnare il suo nuovo popolo, la Chiesa, fino alla terra promessa del Cielo, e per questo san Paolo dice risolutamente che la pietra era il Cristo, giacché il Cristo avrebbe dissetato il novello popolo di Dio con le acque della grazia. Egli, infatti, soggiunge: Queste cose erano figura di noi, cioè in tutti questi avvenimenti c’era una figura e un annuncio di quello che sarebbe avvenuto nella pienezza dei tempi al novello popolo di Dio, cioè alla Chiesa.
Ora, nella Chiesa tutti ricevono il Battesimo, figurato dalla nube e dalle acque del Mar Rosso, e lo ricevono in Gesù, figurato da Mosè, per formare in Lui un sol corpo; tutti mangiano il medesimo Pane eucaristico, figurato dalla manna; tutti bevono alle acque della grazia scaturite da Gesù Cristo, pietra angolare della Chiesa e roccia salda a cui essa si appoggia; ma, come con gli Ebrei nel deserto, non in tutti si compiace Dio e, di conseguenza, non tutti si salvano se non operano il bene, se non rifuggono dall’idolatria, se non si conservano puri, se non compiono la divina volontà obbedendo al Capo della Chiesa e ai suoi pastori, senza mormorare di loro.
La storia degli Ebrei attraverso il deserto era figura della Chiesa, ed è un avvertimento ai figli della Chiesa. Le colpe per le quali gli Ebrei furono esclusi dalla terra promessa, dicono ai cristiani quanto sia pericoloso per essi e quale ostacolo sia alla loro salvezza l’imitare gli Ebrei nel-
le loro miserie e prevaricazioni. Molti Ebrei nel deserto adorarono il vitello d’oro (Es 32,6) e tripudiarono intorno all’idolo infame mangiando e bevendo. Ora, un cristiano che, per il gusto di mangiare carne, non si fa scrupolo di partecipate ai banchetti idolatrici, non è dissimile dagli Ebrei tripudianti intorno al vitello infame. Gli Ebrei stando in Sittim fornicarono con le figlie di Moab, le quali li invitarono ai loro sacrifici, ed essi mangiarono ed adorarono i loro dèi, com’è raccontato nel libro dei Numeri (25,lss). Peccarono d’impurità è furono puniti per ordine di Dio e di Mosè, e in un sol giorno ne perirono ventiquattromila.
Non sia ingrato il cristiano alle grazie
ricevute!
Un cristiano che si dà all’impurità non è meno colpevole di quegli Ebrei puniti tanto gravemente e, partecipando ai banchetti idolatrici con le donne idolatriche, rinnegano la loro fede e si espongono al flagello di Dio. Né un cristiano può tentare Gesù Cristo, lamentandosi delle angustie del terreno pellegrinaggio e mormorando contro le autorità stabilite da Dio, a somiglianza degli Ebrei che tentarono il Signore nella strada che dal monte Hor conduceva al Mar Rosso, lamentandosi delle angustie del cammino (Nm 21,4ss), e mormorarono contro Dio e contro Mosè, ora per l’acqua amara (Es 15,24), ora per la mancanza di cibo (ivi 16,2), ora per la mancanza di acqua (ivi 17,3) ed ora per altri motivi, e specialmente per la severa punizione inflitta da Dio a Core e ai suoi seguaci (Nm 16,1 ss), per avere egli presunto di assumersi funzioni sacerdotali di proprio arbitrio contro Aronne. Per questi peccati meritarono il terribile flagello dei serpenti velenosi sulla strada di Hor, e lo sterminio di ben quattordicimila e settecento uomini.
Un cristiano, considerando la severità di Dio con Israele prevaricatore, non può rimanere indifferente, ma deve accogliere l’avviso di Dio, perché per nostro avvertimento quelle cose sono scritte nei Sacri Libri, per noi ai quali è toccata la fine dei tempi, ossia che ci troviamo in pieno nel tempo messianico e nel compimento delle divine promesse, delle quali erano figura i fatti dell’Antico Testamento.
Di fronte al pericolo d’incorrere nel giusto castigo di Dio, pur illudendosi di operare bene usando della propria libertà, san Paolo si rivolge con accoramento ai suoi fedeli, dicendo: Chi crede di stare in piedi, badi bene di non cadere. Nessuno può essere sicuro della propria fermezza nel bene e, quindi, deve andare avanti con grande e salutare timore, senza però scoraggiarsi, perché lo scoraggiamento potrebbe portare nell’anima un senso di fatalismo quasi essa fosse pressata da una coartazione ineluttabile. Voi, del resto - dice san Paolo ai Corinzi - non siete stati sottoposti a prove gravissime come le altre Chiese, dove satana ha suscitato persecuzioni sanguinose. Nessuna tentazione vi ha sorpresi se non l'umana, cioè se non quelle che vengono comunemente nella vita umana per le relazioni con gli uomini, come, per esempio, la tentazione del rispetto umano, per la quale il fedele poteva piegarsi facilmente a mangiare nei conviti dedicati agli idoli. Se venisse però una persecuzione violenta, i Corinzi dovrebbero avere fiducia, perché Dio è fedele, e non permetterà che essi siano tentati oltre il loro potere e la loro forza di resistenza, ma darà con la tentazione lo scampo, cioè l’aiuto necessario per uscirne vittoriosi.
Essendo i Corinzi esposti per ora solo ai cimenti della comune vita umana nelle sue relazioni ordinarie, debbono essere fermi a fuggire l’idolatria, evitando ogni partecipazione, sia pure di convenienza ai sacrifici idolatrici. Per persuaderli, san Paolo sottopone al loro medesimo giudizio un argomento, al quale essi non avrebbero potuto replicare e, perché non avessero replicato, in certo modo li lusinga appellandosi al loro intelligente giudizio: Il calice di benedizione - egli esclama - ossia il calice eucaristico cui noi benediciamo, consacrandolo, non è comunione col Sangue di Cristo! E il pane che spezziamo, ossia che consacriamo, nel Santo Sacrificio della Messa, non è comunione col Corpo del Signore?
Benedire il calice era lo stesso che dire consacrarlo e transustanziarlo nel Sangue di Gesù Cristo, come spezzare il pane era la frase caratteristica per indicare la consacrazione eucaristica {At 2,42,46; 20,7,11, ecc.); san Paolo, quindi, si riporta al Sacrificio Eucaristico, e con le sue parole ne afferma inequivocabilmente l’esistenza e la pratica fin dai primordi della Chiesa, contrapponendolo ai sacrifici offerti agli idoli.
I protestanti, che negano il Sacrificio Eucaristico e la presenza reale di Gesù Cristo sotto le sacre specie, sono schiacciati da questo argomento. San Paolo vuol dire: con la consacrazione del vino e del pane nel Sacrificio Eucaristico, voi, o Corinzi, sapete bene e siete certi che vi comunicate col Sangue e col Corpo di Gesù Cristo e vi comunicate talmente che diventate in Lui e per Lui un sol corpo.
Ora, se, immolando il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, voi partecipate della sua vita, vi comunicate di Lui e siete in Lui un sol corpo partecipando alla sua vita reale, partecipando al banchetto nel quale si consumano carni offerte agli idoli come complemento e consumazione dei sacrifici loro offerti, voi venite a comunicare alla vita idolatrica, e commettete un atto di apostasia dalla vera fede.
A rafforzare il suo argomento, san Paolo si richiama anche ai sacrifici degli Ebrei, confermando, con questa analogia, la realtà del Sacrificio Eucaristico: Riguardate Israele secondo la carne - egli dice - cioè riguardatelo come popolo che carnalmente discende da Abramo, come popolo distinto da quello cristiano, che è il vero popolo di Dio secondo lo spirito (Rm 2,28ss; Gal 4,29). Ora, nei loro sacrifici offerti a Dio, gli Ebrei mangiando delle vittime non hanno comunione con l’altare? Essi, mangiandone, sono partecipi del culto, prestato a Dio, culto che aveva il suo centro nell’altare del sacrificio. Partecipando alla vittima offerta a Dio, partecipano al culto prestato al vero Dio, del quale riconoscono la realtà, e quindi si dichiarano adoratori del vero Dio. Il loro atto è una professione di fede, e nessuno potrebbe negarlo. Ora, se nel Sacrificio Eucaristico, che è il vero ed unico sacrificio offerto a Dio, il sacrificio che ha sostituito quelli dell’antica Legge che lo figuravano, è una comunione col Corpo e col Sangue di Gesù Cristo, così vera da rendere quelli che vi partecipano una sola cosa e come un sol corpo in Cristo, e se nel sacrificio del tempio il mangiare della vittima non è un atto indifferente qualunque ma è una professione vera ed esplicita del culto dovuto al vero Dio, il mangiare delle vittime offerte agli idoli in un banchetto idolatrico non è un atto indifferente, ma è una partecipazione al culto idolatrico e una pubblica professione di idolatria, dalla quale un cristiano deve rifuggire con tutte le sue forze.
Nell’idolatria del mondo il culto a satana
Questa conclusione riguardante il culto idolatrico san Paolo non la fa esplicitamente, ma la lascia supporre, discendente essa con logica serrata dall’analogia che egli porta del vero Sacrificio, quello Eucaristico del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, e del sacrificio dell’antica Legge che ne era figura. Egli, piuttosto, parlando di sacrifici idolatrici, ci tiene a chiarire subito un equivoco che poteva nascere tra i fedeli.
Al capitolo 8,4 egli aveva affermato che l’idolo è niente, e che, quindi, il mangiare la carne immolata ad esso era un atto di per sé indifferente, non essendo essa contaminata in se stessa da un idolo che in realtà era nullo, un pezzo di legno o di pietra e null’altro. Che voglio io, dunque, dire - egli esclama - che sono qualche cosa le carni immolate agli idoli, ovvero che l’idolo è qualche cosa?
Non voglio dire questo, né contraddico a quello che vi ho già detto; ma altra cosa è considerare la carne offerta a un idolo come carne da mercato, altra cosa è considerare il mangiarla come partecipazione ad un banchetto idolatrico.
L’idolo è nulla, è un pezzo di legno o di pietra, ma quello che le genti immolano, lo immolano ai demoni e non a Dio, e i demoni non sono un nulla ma veramente esistono, e sono nemici di Dio. Mangiare una carne senza curarsi se sia stata offerta o meno agli idoli di legno e di pietra è un atto indifferente, ma partecipare ad un banchetto idolatrico è un comunicare con i demoni, perché nell’idolo i pagani in realtà adorano i demoni; ora, come potete voi - esclama con forza l’Apostolo - bere del calice del Signore e del calice dei demoni, o partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni?*
Vogliamo noi provocare ad ira il Signore, facendo lega col demonio nella partecipazione ai sacrifici idolatrici? Se Dio non soffre rivali (Dt 22,21) perché Egli solo è Dio e ci ama di infinito amore, come possiamo, noi che gli apparteniamo per la fede, partecipare alla mensa degli idoli senza tremare della sua giustizia? Siamo noi più forti di Lui? Possiamo mai presumere di non curaci della divina gelosia con la quale ci ama, o dei suoi giudizi? Dio non è uno scherzo, non è un’illusione, è un’infinita realtà, un’infinita realtà.
Quando si guarda un idolo si può ridere perché è una nullità, ma quando si vede come termine del culto idolatrico satana, nemico di Dio, e quando si considera il Signore nella sua reale grandezza e potenza, e soprattutto nella gelosia divina che ha delle anime e della sua gloria, chi può osare di offenderlo con tanta audacia da partecipare al culto idolatrico?
Dopo di aver dichiarato esplicitamente e con forti ragioni, a scanso di equivoci, che non si deve partecipare in nessun modo ai banchetti idolatrici, san Paolo ritorna sulla domanda che gli era stata fatta intorno alle carni immolate agli idoli, che si vendevano in pubblico come merce, prescindendo da ogni relazione immediata con i sacrifici. Egli continua l’argomento del capitolo 8, nel quale aveva detto che si doveva evitare ad ogni costo quello che poteva scandalizzare i piccoli di spirito e i deboli di coscienza e, prima di proporre due casi specifici della questione a lui sottoposta, esclama, contro quelli che volevano fare il loro comodo senza curarsi del bene delle anime: Tutto mi è permesso nei limiti della santa libertà concessami da Dio, ma non tutto è utile. Tutto mi è permesso, ma non tutto è di edificazione.
Nelle cose indifferenti, come sono i diversi cibi, benché sia vero che tutto è lecito, pure nella pratica si deve badare se ciò che è in sé indifferente, possa, per circostanze speciali, recare danno a se stessi o al prossimo, perché
in tal caso bisogna astenersene, e non badare solo all’utile proprio. Nessuno cerchi l’utile suo - esclama l’Apostolo - ma quello degli altri, perché questa è la legge della carità. Posto questo fondamento indispensabile, l’Apostolo propone il primo caso di coscienza in merito alle carni, e cioè come un cristiano deve comportarsi nella propria casa.
Principio generale è questo, che tutto quello che si vende al mercato si può comperare e mangiare, senza indagare per scrupolo di coscienza quale origine abbiano le carni che si vendono, poiché del Signore è la terra e ciò che essa contiene. San Paolo cita questo primo versetto del salmo 23 per dire che ciò che si compera lo si deve comperare senza preoccupazione, come una benigna elargizione della divina bontà e padronanza, glorificando, così, il Signore, anche in questo semplice atto della vita. In tal modo, anche se la carne comperata fosse stata offerta agli idoli prima di essere immessa sul mercato, questo non dovrebbe importare ad un cristiano, riguardandola egli puramente e semplicemente come un dono di Dio.
Il secondo caso che l’Apostolo propone è questo: come comportarsi quando si è invitati a cena da qualche amico infedele? Egli risponde che, trattandosi di una cena comune e non di un banchetto idolatrico, il cristiano, se vuole accettare l’invito, può accettarlo e mangiare qualunque cosa gli venga servita, senza dover fare nessun esame per scrupolo dì coscienza, perché per un cristiano tutti i cibi sono mondi. Se infatti qualche convitato o altri della famiglia, sia fedele o pagano, faccia notare che quella carne è stata immolata agli idoli, allora non bisogna mangiarne per non scandalizzare colui che ha dato l’avviso, se è cristiano o, se è pagano, per non mostrarsi connivente con lui nella superstizione idolatrica. Questa precauzione deve prenderla non per la propria coscienza, che pur mangiando di quella carne starebbe a posto, ma per carità verso la coscienza altrui, debole, poco istruita o traviata dal paganesimo.
Quando non c’è questa speciale ragione, la coscienza di chi mangia è libera di farlo, e l’atto che compie non è illecito, anche se una coscienza scrupolosa crede che sia tale. Perché, infatti - dice l’Apostolo - la mia coscienza dovrebbe sottostare al giudizio dell’altrui coscienza? Perché ci sono anime poco istruite o tapine, che credono illecito mangiare la carne immolata agli idoli, fuori, s’intende, dei banchetti o dei sacrifici idolatrici, io dovrei avere come legge di coscienza la loro piccineria di spirito? Se io partecipo al convito con azioni di grazie, e rendendo pubblicamente grazie a Dio vengo a confessarlo apertamente, perché dovrei essere rimproverato di ciò di cui rendo grazie, e che riguardo, perciò, come dono di Dio?
San Paolo conclude il suo argomento dando ai cristiani una norma generale per santificare tutte le loro azioni, e per sfuggire, così, in ogni cosa al pericolo di peccare: O mangiate, dunque, o beviate, o facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto a gloria di Dio. Operando per la gloria di Dio con cuore sincero e pieno di fede non si può fare nulla contro di Dio. L’Apostolo completa questa mirabile legge di amore per Dio con una raccomandazione per il prossimo: Non siate d’inciampo né ai Giudei, né ai pagani, allontanandoli dalla fede, né alla Chiesa di Dio, cioè ai fedeli, scandalizzandoli. San Paolo suggella poi questa raccomandazione col proprio esempio dicendo: Operate così a quel modo che io pure mi sforzo di compiacere a tutti, non cercando il mio proprio vantaggio ma quello del maggior numero perché si salvino.
Sac. Dolindo Ruotolo

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