1. Il significato letterale di questo capitolo
Come distinguere i falsi dottori dai veri
La carità fraterna, sulla quale insiste tanto S. Giovanni, è il comandamento principale della Legge antica annunziata da Dio, ed è il comandamento di Gesù Cristo, Redentore nostro, il suo comandamento, che definì come nuovo, perché proclamato in un tempo di odio e di guerre, e per il popolo ebreo, in un tempo di isolamento... diremmo, razziale, con vocabolo di moda. Dio, proclamando la suprema legge dell’amore che gli dovevano le creature, e dell’amore scambievole che si dovevano gli uomini tra loro per amore suo, si rivolgeva al popolo eletto, e quindi la legge era ristretta ad esso per necessità riguardava la sua particolare posizione nel mondo. Separato dagli altri popoli, l’amore fraterno non poteva riguardare che l’amore per i propri connazionali. Non era, dunque, come facilmente si asserisce, un precetto imperfetto.
Venuto in terra il Figliuolo di Dio, per redimere e salvare non gli Ebrei soltanto, ma il mondo, ma tutti gli uomini, era logico che il precetto della carità fosse esteso a tutti gli uomini, e perciò fosse una luce nuova per tutti, escludendo ogni divisione ed ogni odio.
Morendo per tutti, Gesù volle unirli tutti nel suo amore, e fondò la Chiesa, ovile di raccolta per le sue pecorelle.
Diamo un esempio recentissimo, per dare un’idea di questa unione di tutti in Gesù: nella stazione sperimentale di piante subtropicali di Sotchi, c’è un grosso albero che è stato battezzato albero dell’amicizia e quindi indirettamente dell’amore, per i frutti diversi che vi maturano. Sullo stesso tronco si trovano i frutti di mandarini giapponesi, di limoni italiani, di pompeimi americani, di arance cinesi, ecc. Si arriva alla cifra di cinquanta diverse varietà di frutti su di un solo albero.
Ebbene, la Croce è il vero albero dell’amore, sul quale debbono maturare, per la carità, i frutti della redenzione di tutti i popoli della terra, senza distinzione di colore, di razza o di abitudini nazionali, uniti in quella dolcissima parola di Gesù Cristo: Amatevi come io vi ho amati.
La carità, quindi, viene nelle anime dalla fede viva in Gesù Cristo che, morendo, ha dato l’esempio della somma carità, confermando col suo Sangue il precetto che aveva dato. Con stretta connessione di idee, nella luce soprannaturale che lo illuminava, S. Giovanni esorta i fedeli alla purezza della fede e li mette in guardia contro i falsi dottori, che con i loro errori mettevano dissensioni profonde nelle anime.
Non è, quindi, come dicono i moderni, per il suo gusto letterario che ritorna sulla necessità di una fede pura, prima di continuare ad insistere sulla carità con nuovi argomenti. Non si tratta di gusto letterario, che potrebbe avere anche l’apparenza di una certa confusione personale nell’ordine delle idee e nell’insegnamento delle verità: non si tratta di un ritorno su concetti già espressi ma di un avviso opportuno e necessario per mettere un saldo fondamento alla pratica della carità.
S. Giovanni, perciò, dice: Diletti, non ad ogni spirito prestate fede, ma mettete alla prova gli spiriti, per sapere se sono da Dio; infatti, molti falsi profeti hanno fatto irruzione nel mondo.
Ogni falso dottore, nel propagare false dottrine sulla fede, le presentava come ispirazione di Dio, contraffacendo i carismi dello Spirito Santo, che allora erano comuni nella Chiesa. Lo Spirito delle tenebre si trasformava in angelo di luce per ingannare le anime e disgregarle nell’unità della fede, e perciò nella unione fraterna della carità.
Non ad ogni spirito prestate fede — dice S. Giovanni — e che cosa intende per spirito? La parola greca, che usa, pneuma, nel significato letterale significa soffio, alito, vento, indipendentemente da ogni altro concetto; ma può significare e designare gli esseri immateriali, come Dio, gli Angeli, i demoni e le anime, per analogia. Il soffio, il vento, l’alito, infatti, non si veggono, e si percepiscono quasi come una cosa immateriale.
La parola pneuma, spirito, si estende pure agl’influssi degli esseri immateriali ed alle persone che agiscono mosse da tali influssi. Si dice, quindi, spirito di verità; spirito di menzogna, spirito maligno; spirito santo, ecc.
Evidentemente S. Giovanni parla di spiriti, intendendo significare quelli che predicavano o insegnavano con l’apparenza della verità o con la mistificazione di carismi o di ispirazioni che non avevano, e mette in guardia i fedeli, perché non si fossero fatti illudere da ipocrite apparenze di verità o di progresso o di ispirazioni soprannaturali. Egli soggiunge, infatti, che molti falsi profeti avevano fatto irruzione nel mondo. Gesù stesso aveva prevenuto gli Apostoli ed i suoi seguaci contro il pericolo di falsi dottori, dicendo: Sorgeranno molti pseudocristi e pseudoprofeti e sedurranno molti (Matt. XXIV, 18, 24).
Al tempo di S. Giovanni già serpeggiavano tra i fedeli false dottrine, e falsi dottori se ne facevano propagatori, quasi fossero stati profeti mandati da Dio, simulando il carisma della profezia che riviveva in forma straordinaria nei primi tempi della Chiesa.
C’era, dunque, necessità di avere un criterio per distinguere nettamente i falsi dottori dai veri, e S. Giovanni lo dà in forma sintetica ma chiarissima: In questo conoscete lo spirito di Dio: ogni spirito il quale professa che Gesù è il Cristo, venuto nella carne (e si sottintende necessariamente: da Maria Vergine) è da Dio, mentre che ogni spirito che non professa questo Gesù, con la sua Madre, non è da Dio, anzi costui, questo spirito, è proprio quello dell’anticristo, del quale avete inteso che viene, anzi è già nel mondo.
Non è arbitrario il pensare che S. Giovanni, parlando di Gesù Cristo venuto nella carne, abbia sottinteso necessariamente da Maria Vergine, e, che quindi, professare che Gesù è il Cristo, credere in Lui, venuto nella umana carne, implica di necessità il credere in Maria SS. Professare Gesù, significa credergli, onorarlo, adorarlo come vero Liglio di Dio, e significa credere, onorare e amare Maria SS. dalla quale, per opera dello Spirito Santo, prese l’umana carne *.
S. Giovanni stava con Maria, alla quale Gesù l’aveva affidato; conviveva con Lei nella stessa casa, in sua; aveva in Lei l’argomento vivo della realtà del Cristo venuto nell’umana carne; era tutto compreso della grandezza e della immacolata purezza della piena di grazia, e non poteva dare come certo contrassegno dello spirito di Dio il credere nel Cristo venuto nella umana carne, senza dare implicitamente, ma luminosamente, come contrassegno dello spirito di Dio il credere in Maria SS.
Chi manca di questa fede, lo intendano i poveri protestanti, non può avere altra caratteristica che quella di anticristo e non può illudersi di avere lo spirito di Dio. È un argomento fortissimo che dovrebbe disingannarli.
In conformità alla dottrina cattolica, secondo la tradizione apostolica, e non secondo una libera, ossia cervellotica, arbitraria interpretazione della sacra Scrittura, è contrassegno dello spirito di Dio, dal quale viene come conseguenza la rettitudine morale. È il contrassegno che diedero gli Apostoli per distinguere i veri profeti dai falsi; è il contrassegno che danno i Padri ed i dottori della Chiesa.
Chi pretende di credere in Gesù senza riconoscere Maria, dissolve Gesù solvit lesum, come traduce bellamente la Volgata; lo dissolve, perché lo divide dalla Madre, ed un figlio, separato dalla Madre, non ha vita, è un misero aborto; e se, nato, volesse vivere o pretendere di vivere senza la madre, prescindendo da lei, o, peggio, rinnegandola con malcelato disprezzo, sarebbe solo un orfano cencioso, sporco, affamato ed abbandonato! Chi è antiMaria diventa per necessità anticristo.
Gli errori, che insinuavano i falsi dottori tra i fedeli erano precisamente contro la reale umanità assunta dal Figlio di Dio in Maria, ed altri errori simili, che tentavano dissolvere l’unità della Chiesa nella carità, in un solo pensiero, in una sola anima, in un solo cuore.
S. Giovanni dice che l'anticristo attualmente è già nel mondo, alludendo agli errori che si diffondevano dai falsi dottori contro l’integrità e l’unità della fede, come già l’aveva inteso nel capitolo secondo (18, 19,22). Con questo non voleva dire che l’anticristo, del quale parla nell’Apocalisse, che si manifesterà alla fine del mondo, fosse già venuto.
Nel secondo capitolo egli lo ritiene come l’insieme delle forze malefiche di errori e di seduzioni che allontanano le anime dalla fede e dalla integrità dei costumi, il che dolorosamente è anche nel nostro tempo e forse più nel nostro tempo.
Gli anticristi del mondo
Per questo subito (S. Giovanni) parla del mondo e dello spirito del mondo, che, allora come oggi, è l’anticristo; parla dei disseminatori di errori, che sono anticristi perché vivono dello spirito del mondo e ad essi contrappone i fedeli ai quali scrive, compiacendosi della integrità della loro fede, ed esclama: Voi da Dio siete, o figliuoli, e li avete vinti gli anticristi, emissari del maligno, come Gesù Cristo ha vinto il mondo, perché è più grande Quegli che è in voi di colui che è nel mondo, dell’anticristo o dei suoi seguaci. Essi dal mondo sono, per questo secondo il mondo parlano ed il mondo li ascolta.
L’errore, infatti, trascina facilmente le anime, perché carezza le loro passioni disordinate ed indulge alla loro vita di corruzione, anzi la incoraggia. I fedeli che sono da Dio non si lasciano sedurre dal
mondo e lo vincono per la forza divina della grazia che opera in loro, per Gesù Cristo. Egli, infatti, disse: Nel mondo avrete tribolazione; ma fatevi animo, io ho vinto il mondo (Giov. XVI, 33).
E come lo aveva vinto, se Egli stesso era perseguitato, e lo fu sino ad essere crocifisso, apparendo come un vinto anziché come un vincitore? Lo vinse con la luce della sua dottrina, con la luce della verità; lo vinse proprio con la Croce, levando sul Calvario il vessillo della vittoria.
Quelli che seguono Gesù Crocifisso e la sua dottrina, predicata dagli Apostoli e dai loro successori, vincono il mondo, vincono gli anticristi. Noi, soggiunge S. Giovanni, noi apostoli, da Dio siamo, ed annunziamo la verità per mandato di Gesù Cristo. Chi conosce Dio ascolta noi, segue non gli errori, ma il magistero della Chiesa, avendo detto Gesù: Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me (Luc. X, 16).
Per la sicurezza del mandato avuto da Gesù Cristo di ammaestrare tutte le genti (Matt. XXVIII, 19) e per questa esplicita parola del Redentore, S. Giovanni soggiunge: Chi non è da Dio non ci ascolta. Da questo riconosciamo lo spirito della verità e lo spirito della menzogna.
Con queste categoriche parole, S. Giovanni esorta i fedeli a non essere divisi per la propaganda dei falsi dottori, ma ad essere uniti in perfetta carità nell’unità della fede. Perciò, con logica connessione di idee, ritorna sull’argomento della carità e dell’amore fraterno, per inculcarlo con motivi anche più forti e luminosi: Diletti, amiamoci l’un l’altro, perché l’amore è da Dio, e chiunque ama è generato da Dio e conosce Iddio. Chi non ama non conosce Iddio, perché Dio è amore.
Dio è amore
Una mirabile definizione di Dio: Iddio è amore, non semplicemente Dio, in una idea generica di divinità, teos nel greco, idea che può riferirsi al concetto di divinità e si diceva persino degl’idoli, ma Iddio, o teos, il vero Dio, l’unico Dio, nell’adorabile Trinità. Se Dio è amore, la definizione vera, e, diremmo, filosofica dell’amore non può darsi che nella luce di Dio, non può approfondirsi che rispecchiandoci
nella essenza stessa di Dio Uno e Trino, in unità perfettissima di natura, e nella Trinità, in perfettissima unione di amore.
Oceano di amore nel quale l’anima può rispecchiarsi per intendere che cosa è amore. I filosofi si sono sforzati di definirlo, e l’hanno chiamato indefinibile, perché o non hanno conosciuto Iddio, come i pagani, o lo hanno rinnegato in una confusione di concetti falsissimi, o addirittura nell’ateismo, come i miseri filosofastri moderni, che si atteggiano a pensatori e nel loro orgoglio non si accorgono di cadere nell’assurdo.
Che cosa intende S. Giovanni per amore fraterno, quando dice: Diletti, amiamoci l’un l’altro, e che cosa intende per amore divino, quando dice che Iddio è amore?
È un concetto difficile da chiarirsi, per capire la grandiosità di quello che dice S. Giovanni. Prima di tutto l’Apostolo qualifica l’amore con la parola greca agape, parola sconosciuta negli scritti precristiani non biblici, nei quali ricorre solo una o due volte. Da agape venne chiamato il banchetto eucaristico, che è il banchetto dell’amore divino e della carità fraterna.
Per i greci pagani l’amore era chiamato eros, dal quale deriva, nella nostra lingua, erotico. L’eros greco, tutto materiale e carnale, si estende ad ogni sentimento focoso, appassionato, specialmente a quello sensuale; è la brama che trascina verso il piacere impuro, verso la nudità maschile o femminile che lo provoca, e perciò i latini lo chiamavano Cupido, deificandolo come un fanciullo bendato che saettava. Cupido, concupiscenza, desiderio di connubio; bendato, perché acceso dalla passione, che, trascinata dal senso, non ragiona, non vede più ciò che è retto, e dardeggia nel cuore, per ferire nei sensi.
Platone, nella elevazione della sua grande mente, innanzi alla quale i moderni filosofastri spariscono come esamfeli di palude che sorgono dal pantano, per suggere e avvelenare di malaria i poveri cervelli umani, tentò idealizzare l’eros nel suo Convivio e lo denominò: desiderio di bellezza corporea, che, evolvendosi, ascende dalla carne allo spirito, e dallo spirito alla bellezza divina, alle idee eterne.
Sforzo che possiamo dire nobile in un pagano, abituato a vedere la divinità nella meravigliosa arte con la quale erano scolpiti gli idoli dell’Olimpo.
Per Platone, quindi, l’amore era una passione carnale, che intensificandosi, si purificava, evidentemente perché non soddisfaceva. Dalla materia passava all’ideale della bellezza, dalla bellezza corporale, che non si restringeva e si confondeva nella sensualità, si elevava nella estetica di tutto il corpo, ed appariva nella luce della bontà, della proporzione, dell’ordine, spirando pace nell’ammirazione.
Da questo, nell’idea di Platone, l’anima poteva assurgere alla bellezza divina, perché, dall’idolo di forme corporali perfette, poteva elevarsi alla bellezza divina, prescindendo dalla materia.
Come si vede, in un pagano, che con la sua profonda ragione era giunto al concetto di Dio come unico, pur vivendo tra numerosi idoli, era un concetto immensamente più nobile di quello dei filosofastri moderni, che confondono l’amore con la sensualità.
La Sacra Scrittura dice che Dio, nel creare le cose materiali, vide che erano buone; le vide nell’ordine delle leggi che le regolavano, e nella bellezza della loro armonia, corrispondente al fine per le quali le creava, compiacendosene. Il suo compiacimento era amore, era come suggello della loro perfezione materiale; vide come l’artista che guarda l’opera d’arte da lui fatta e, compiacendosene, la definisce perfetta. Il suo sguardo è come l’ultima mano alla perfezione dell’opera, perché non vi riconosce difetti.
Come è profonda l’espressione della Sacra Scrittura: Dio disse: Sia fatta la luce. E la luce fu. E Dio vide che la luce era buona. Dio disse: Si radunino le acque in un sol luogo ed apparisca l’arida. E così fu fatto. E Dio nominò terra l’arida, e la raccolta delle acque la chiamò mari. E Dio vide che ciò era buono (Gen. 1, 3, 4, 9, 10).
L’amore, come lo definisce S. Giovanni, l'agape non è una passione purificata, ma è Dio stesso: Iddio è amore. Dio che si dona prima di tutto e dall’eternità, nella generazione del Verbo, del Figlio suo che è nel seno del Padre (Giov. 1, 18), Dio che per il Verbo suo si dona al mondo: Iddio ha tanto amato il mondo, fino a dare l’unico Piglio suo (Giov. Ili, 6). Il Verbo incarnato è la manifestazione suprema di Dio amore, e l’amore di Dio, che per il Figlio suo incarnato ci purifica col suo Sangue, è propiziazione per i nostri peccati e per quelli del mondo intero (I Giov. 1,7). È il mediatore di amore fra noi e Dio, Padre giusto — disse Gesù nella sua sublime preghiera —
io ho fatto loro conoscere il tuo Nome, e lo farò loro conoscere ancora, affinché l’amore col quale mi hai amato, sia in loro, ed io pure sia in loro (Giov. XVII, 26).
Iddio è amore, e l’amore suo non è uno sguardo di compiacimento, ma è una forza potente che ci sospinge all’azione, è la sua grazia che ci rende partecipi della sua natura divina. Per la grazia noi lo amiamo, e la nostra corrispondenza al suo amore, che Egli esige da noi perché ci ama, è frutto della sua medesima grazia, si manifesta e si testifica nella carità, e perciò chi non ama rimane nella morte (III, 14) e chiunque ama è generalo da Dio e conosce Dio.
L’amore vero trasforma l’uomo, lo riscalda di carità operosa verso Dio e verso il prossimo; non è una sterile espressione di parole, ma è amore che si manifesta nella verità sincera e si attiva nelle opere (III, 16). Iddio è amore, e noi, creati ad immagine e somiglianza di Dio, dobbiamo essere amore nella carità. L’amore perfetto scaccia il timore (IV, 16, 18) è fonte di gioia (Giov. XV, 9-12; III, 20) è pace (Giov. XIV, 27).
Di fronte a questa mirabile concezione dell’amore in Dio e in noi, che cosa sono le meschinissime idee umane?
O misere idee, erranti come pipistrelli nella notte, in cerca di insetti, e riposanti nello speco oscuro, capovolti!
Amiamoci l’un l’altro
Quale accento di verità hanno le parole di S. Giovanni: Amiamoci l’un l’altro, perché l’amore è da Dio, e chiunque ama è generato da Dio e conosce Iddio. Chi non ama non conosce Iddio, perché Iddio è amore. La carità diffusa per mezzo dello Spirito Santo che ci fu dato (Rom. V, 5) è da Dio e proviene da Lui. Chiunque ama il prossimo con questo amore soprannaturale infuso da Dio è generato da Dio, è figlio di Dio, perché per lo Spirito Santo, Amore eterno di Dio, possiede in sé un germe divino e conosce Dio; lo conosce abitualmente come presente, secondo l’espressione della parola greca, lo conosce con la vera scienza, per la fede; sa che Dio è sommo bene che brama effondersi e si effonde nella creazione e nella grazia; lo sa e cerca imitarlo effondendosi nella carità ed osservando la Legge di Dio, poiché
tutto il decalogo non è altro che la legge della carità verso Dio e verso il prossimo.
Chi non ama il prossimo con amore soprannaturale, chi non ha per il prossimo rispetto, stima, bontà, servitù santa di soccorso, tenerezza di compatimento, dolcezza di tratto, ma, al contrario, si contrasta, ne mormora, lo giudica male, lo guarda con antipatia, gli serba rancore, è facile al ripicco o alla vendetta, ecc. non conobbe Dio, non è giunto nemmeno all’inizio della vera conoscenza di Dio, come indica l’espressione greca, ouk egno, perché Iddio è amore.
La misura, dunque, della nostra vita spirituale è la nostra carità verso il prossimo. Se manchiamo di carità, dolorosamente non stiamo neppure all’inizio della vita cristiana e tanto meno della perfezione. È per il rammarico, che gli cagiona la mancanza di carità, segno che non si sta neppure all’inizio della vita cristiana e perfetta, che S. Giovanni esce in quella vibrante definizione di Dio: Iddio è amore!
È l’esplosione di un affetto intensamente vissuto da lui, che aveva attinto dal Cuore di Gesù, sul quale aveva riposato, dall’intima conversazione con l’Unigenito di Dio, fattosi uomo e sacrificatosi per noi. Questo amore gli suggerì l’espressione forte: Chi non ama non conobbe Iddio, ouk egno, non è giunto neppure all’inizio della conoscenza di Dio.
Anche noi, nel parlare comune, per notare l’errore altrui, che ci sorprende e ci addolora, diciamo fortemente: Non sei neppure all’inizio della virtù, ti mancano i primi elementi della carità, ecc. Per questo S. Giovanni rafforza la sua espressione: Iddio è amore, richiamando le anime alla somma manifestazione del suo amore tra gli uomini, dicendo: Per questo rifulse l’amore di Dio tra noi; il proprio Figlio suo, l’Unigenito, ha mandato Iddio nel mondo, affinché avessimo la vita per mezzo di Lui. In questo sta l’amore: non noi amammo Iddio, ma Lui amò noi, e mandò il Figlio suo come propiziazione per i peccati nostri. Non poteva, dunque, Dio darci una maggiore manifestazione di amore per noi.
Questa riflessione rafforza la sublime definizione che S. Giovanni ha data di Dio, come sintesi mirabile dei suoi divini attributi, spinta, perciò, all’anima cristiana nell’esercizio della carità.
L’Apostolo aveva detto che Dio è luce (1, 5), perché è somma verità e santità, per esortare le anime a credere fermamente. Ma non bastava la fede, occorrevano le opere, e le opere della fede si sintetizzano nella carità; perciò S. Giovanni manifesta un attributo essenziale di Dio, che poteva spingere alla carità, dicendo: Iddio è amore.
È mirabile! È un volo sublime di aquila al di sopra di ogni concetto che l’anima può avere di Dio. È il luminoso sorpasso di amore al di sopra delle povere idee che l’uomo ha su Dio o si è formato di Dio.
Perciò S. Agostino, ammirando questa definizione divina, che da sola può accendere l’anima di amore per Lui e può espanderla nella carità, per suo amore, esclama: Che cosa potrebbe dirsi di più grande, o fratelli? Se in tutte le pagine di questa epistola ed in tutte le pagine delle Scritture nulla udissimo intorno alla lode dell’amore, e questo solo sentissimo dalla voce dello Spirito di Dio, che Iddio è amore, nulla di più grande vi dovremmo cercare.
Iddio è amore, non è solo una definizione astratta di Dio; Dio è ancora nella sua natura divina e nella sua adorabile Trinità, unita nell’amore dello Spirito Santo, persona divina che procede dal Padre e dal Figliuolo e li unisce nell’eterna carità.
« Non noi amammo Dio, ma Dio amò noi »
Iddio è amore rifulgendo tra noi con la Redenzione dell’uomo, per mezzo del suo Figliuolo umanato, fatto vittima di propiziazione per i nostri peccati; manifestazione luminosa della carità di Dio. La carità, l’amore è diffusivo, e come la divina bontà si è effusa nella creazione, rivelando la potenza di Dio, così l’amore si è effuso nella Redenzione. Voleva espandersi e creò l’uomo. Lo creò libero, e permise che per la libertà fosse anche caduto nel peccato, ma lo permise per espandere il suo amore nella Redenzione. Poteva forzare l’uomo a non peccare, ma non lo fece, diremmo, per forzare quasi se stesso a manifestarsi nella carità, nell’amore. Nella Redenzione l’amore si manifestò proprio all’uomo. Per questo l’Apostolo soggiunge: In questo sta l’amore'. Non noi amammo Dio, ma Lui amò noi, e mandò il Figlio suo come propiziazione per i nostri peccati.
L’espressione non noi amammo Iddio, ma Lui amò noi è logica,
mirabilmente logica, perché Dio ci creò per manifestare a noi il suo amore col supremo atto di amore: la Redenzione, per la Passione e la morte del Verbo umanato, fatto vittima per noi.
Mirabile mistero di amore, che potremo vedere solo nell’eternità, nel suo splendore: Amore nel crearci, amore nel farci liberi; amore sì, osiamo dirlo, nel permettere la nostra caduta, per farci più belli con la sua carità infinita, dandoci il suo Figliuolo, e per Lui effondendo in noi lo Spirito Santo, il suo eterno Amore. Padre amoroso che ha permesso che il suo figliolino cadesse, giocando liberamente nel campo, per sollevarlo nelle sue braccia, tempestandolo di baci mentre piange ed ingemmandolo di perle per quante lacrime ha sparso, nell’espansione dell’amore eterno che lo rende felice.
Iddio è amore, divino artista che ha fatto, creando l’uomo, un’immagine sua e, vedendola deteriorata dal peccato, l’ha fatta più bella, non con i colori della primitiva tavolozza, ma col Sangue del suo Unigenito, che rende la creatura conforme alla sua immagine sostanziale.
Amore mirabile, che la nostra povera mente non può intendere; amore per il quale si smarrisce, lamentandosi con Dio, ma che la Chiesa canta nella luce dello Spirito Santo con un’espressione che appare paradossale, ma che abbraccia l’amore di Dio, in una stretta di riconoscenza: O felix culpa, o colpa felice che ci donò un Redentore così grande! E più smarrendosi nella riconoscenza canta: o certe necessarium Adae peccatum, o certamente necessario il peccato di Adamo, che fu cancellato dalla morte di Cristo.
Espressioni ardite, che vorremmo dire esagerate? No, espressioni di riconoscente amore per Dio, che per primo ci amò, perché noi lo amassimo.
Psicologicamente, anche l’amore umano non si accende che quando la prima favilla scocca dalla persona che si vuole amare. Un sorriso può far risplendere un volto bello, e determinare in chi lo raccoglie un amore di simpatia; una parola buona o un gesto, che rivela un cuore ed un’anima buona, può suscitare un amoroso apprezzamento di chi, manifestandosi a noi, ci si rivela. Un sacrificio, sopportato per nostro amore, ci fa piangere di tenerezza per chi lo ha fatto e ci trasporta con tutto il cuore verso di lui. Una manifestazione di amore tocca il nostro cuore e lo costringe ad una corrispondenza di amore.
Anche il bimbo sorride alla mamma, se questa per prima gli sorride; è attratto alla mamma, se essa per prima gli fa suggere la vita dal suo petto; si stringe alla mamma e riposa sul suo cuore, se la mamma l’addormenta cantando, lo dondola .carezzandogli con lo sguardo dolcissimo gli occhi che si chiudono in un amoroso abbandono, e dormendo sorridono, e il bimbo, sorridendo, muove le labbra come se ancora succhiasse.
O amorosissimo Iddio non è tutto un sorriso tuo la creazione nelle tue meraviglie, che ci fanno scorgere in pallido riflesso la tua grandezza e la tua bellezza?
E non fu un sorridente soffio di amore, un soffio tuo, l’anima che infondesti nel corpo che si formava tra i misteri della mamma che ci generava? E non fu un meraviglioso gesto di amore il tuo, nella grazia che ci infondesti nel Battesimo?
O infinita bontà che ci redense col sacrificio del Figlio tuo; o infinita carità del Figlio tuo che ci alimenta di sé nell’Eucaristia; o Spirito Santo Dio, che spiri dal Padre e dal Figlio, e, spirando in quella infinita altezza, ti degni riempirci di te, scendendo fino a noi, o amore di Dio, come ci ami! Coi tuoi doni ci sorridi, con la tua dolcezza ci carezzi, con la tua grazia ci abbracci, con la tua misericordia ci fai riposare nella tua pace, ci rassereni nelle nostre tempeste, ci addolcisci nelle nostre amarezze, ci porti nel gaudio eterno, o Amore Eterno, o Dio infinito come il Padre e il Figlio, o Dio che sei Amore!
Il segno che Dio è in noi...
E qual’è la conseguenza di questo infinito amore che viene a noi dall’adorabile Trinità? La trae S. Giovanni con un argomento a fortiori, cioè con più forte ragione, dicendo: Diletti, se a tal punto Dio amò noi, anche noi dobbiamo scambievolmente amarci. Se Dio ha amato gli uomini tanto inferiori a Lui per natura, se li ha amati, pur essendo essi peccatori, anche noi, che siamo della stessa natura, maggiormente dobbiamo amarci scambievolmente (anche quando i nostri fratelli sono difettosi, anche quando ci urtano) per amore di Dio che ci ha amati. Nessuna scusa può esimerci dal dovere della carità, e nessuna mancanza di carità può essere giustificata. Il giudizio, che subiremo dinanzi a Gesù Cristo alla fine del mondo, sarà tutto sulla carità per meritare la sentenza di gloria, e sulle mancanze di carità per meritare la sentenza di dannazione.
Ero affamato, e mi avete dato da mangiare... venite benedetti...
Ero affamato, e non mi avete dato da mangiare, andate maledetti nel fuoco eterno (Matt. XXV, 31-46).
Iddio è amore; dunque, agire contro la carità è agire contro Dio, in qualunque modo noi pretendiamo scusare le nostre mancanze di carità.
S. Giovanni insiste sulla carità e sull’amore fraterno, proprio perché la carità è il precetto più importante per la vita della Chiesa, ed è la manifestazione pratica del nostro amore a Dio. Perciò, insistendo, dice: Iddio nessuno mai l’ha contemplato. Sì, ci sono i Santi contemplativi che lo hanno contemplato con l’amore e per l’amore nell’orazione, ma la Divinità non può essere contemplata com’è, faccia a faccia, da nessun occhio mortale e neppure da nessun intelletto mortale.
Qualunque affermazione contraria a questa verità è errore, è eresia condannata dalla Chiesa e condannata dalla logica. Siamo troppo meschini e ristretti per poter vedere Dio; anche nell’eternità non possiamo contemplarlo e bearci di Lui, senza un lume speciale che è chiamato il lume della gloria. Non possiamo vederlo nella vita terrena, ma per la carità possiamo sentirlo in noi, poiché se ci amiamo l’un l’altro, Dio in noi dimora con la sua grazia, e l’amore per Lui in noi è giunto a perfezione, perché la carità fatta per amor suo ritorna a Dio come corrispondenza all’amore che Egli ha avuto ed ha per noi.
Chi vuole controllare se sta in grazia di Dio e se lo Spirito Santo in lui dimora può farlo con certezza, vedendo il grado di perfezione della sua carità verso il prossimo, poiché la carità è un segno della grazia divina in noi, ed è un frutto dello Spirito Santo, che ci attesta la sua presenza in noi. In questo, cioè nella carità che abbiamo, conosciamo che Lui, Dio, è in noi e noi in Lui, nel fatto, cioè, constatando, per la carità, che Egli, Dio, del suo Spirito ci ha fatto dono.
L’inabitazione di Dio in noi, per la grazia, e l’azione dello Spirito Santo in noi, con i suoi doni, hanno, dunque, un controllo certo nella carità fraterna. Chi manca di carità deve ponderarlo, poiché dalle
sue mancanze di carità può dedurre con certezza che non è in grazia di Dio e che non è animato dallo Spirito Santo.
Gesù Cristo è venuto sulla terra come Salvatore per unirsi a Dio, per attrarre in noi la grazia divina; per questo ci ha dato come precetto suo particolare la carità. È questo il fuoco che venne a portare sulla terra e che bramò che si accendesse; è questo l’esempio vivo che ci diede, salvandoci col suo sacrifizio sanguinoso; esempio che volle confermare nell’ultima cena, lavando i piedi ai suoi apostoli. Li lavò come a pellegrini sulla terra, e li esortò a lavarsi scambievolmente i piedi, per dire che dovevano amarsi facendosi servi degli altri ed aiutandoli a peregrinare sulla terra. Dette l’esempio Egli, signore e maestro, e si umiliò amorosamente ai piedi degli Apostoli, per dire che la carità non poteva esercitarsi riguardando gli uomini come inferiori o come servi, ma nell’unione della stima, del rispetto e dell’aiuto.
S. Giovanni non lo disse esplicitamente, ma nell’esortare con luminosi argomenti alla carità, perché Dio abiti in noi e noi in Dio, e perché lo Spirito Santo operi in noi, non potette non correre col pensiero a Gesù Cristo, Salvatore del mondo, espressione mirabile della carità di Dio verso gli uomini ed esempio vivo di carità; constatato da lui e dagli Apostoli. Per questo soggiunge, con nesso logico e psicologico a quello che animava il suo cuore nella carità: Noi abbiamo contemplato ed attestiamo che il Padre mandò il Figlio come Salvatore del mondo.
La frase non è staccata dal contesto precedente, come potrebbe apparire, ma ne è come il suggello; Io vi parlo così non di mia iniziativa — voleva dire S. Giovanni — non per esprimere un’opinione o una dottrina, ma per manifestarvi quello che abbiamo contemplato in Gesù Cristo, noi Apostoli; e quello che abbiamo ascoltato da Lui, lo attestiamo come testimoni oculari, poiché Egli fu mandato dal Padre come Salvatore del mondo, e lo salvò per l’infinita carità del Padre che lo mandò; lo salvò con la manifestazione somma della sua carità, immolandosi.
Per intendere questa manifestazione di amore del Padre e del Figlio è necessario riconoscere e credere che Gesù Cristo è il Figlio di Dio; senza questa fede è impossibile capire l’infinito amore di Dio e possedere la sua grazia; è impossibile corrispondere al suo amore con la carità verso il prossimo.
Fin dal tempo di S. Giovanni serpeggiavano errori contro la divinità di Gesù Cristo e la realtà della sua Incarnazione; l’Apostolo scrisse il suo Vangelo proprio per confermare i fedeli nella verità. Anche nelle sue lettere insiste su questo punto fondamentale della fede, che costituisce il motivo più forte della carità fraterna raccomandata da Gesù Cristo. Perciò, con logica connessione di idee, soggiunge: Chiunque professa che Gesù è il figlio di Dio, Iddio in lui dimora ed egli in Dio. E noi, Apostoli e fedeli, abbiamo accolto con fede l’amore che Iddio ha in noi, avendo mandato a noi il suo Figliuolo. E ripete il suo ritornello mirabile che ferve nel suo cuore: Iddio è amore, e chi dimora nell’amore, in Dio dimora, e Iddio in lui dimora.
La fede vera, profondamente vissuta, ci fa intendere l’amore di Dio per noi, e l’amore di Dio per noi ci spinge alla riconoscenza ed all’amore per Lui, testimoniandolo a Lui per la carità. Così noi siamo certi di possedere la vera comunione con Dio-Amore, con l’Amore sostanziale, lo Spirito Santo, presente nei nostri cuori.
È veramente commovente l’insistenza con la quale S. Giovanni raccomanda la carità e l’amore fraterno. Egli ne aveva il cuore pieno e nello stesso tempo aveva la dolorosa esperienza di tanta mancanza di carità e di tanta disunione tra i fedeli ai quali si rivolgeva. Era stato da Gesù prediletto, e sapeva per dolcissime reminiscenze che cosa significava amare. Avrebbe voluto che i cristiani si fossero amati come Gesù Lo aveva prediletto. In quante maniere Gesù gli aveva dimostrato di prediligerlo, tanto che, ripetutamente, S. Giovanni nel suo Vangelo non sa designarsi che con questo attributo di amore: il discepolo che Gesù prediligeva! Non poteva, dunque, inculcare la carità senza ricordare l’amore di Gesù per lui. Le parole di Gesù: Amatevi come io vi ho amati erano in lui vive e palpitanti, nel ricordo dell’amore particolare che Gesù aveva avuto per lui.
È un fenomeno psicologico che si realizza anche in noi: È più vivo nel nostro cuore il ricordo di un trapassato che ci ha voluto particolarmente bene, e non possiamo rievocarlo senza dire: Quanto mi voleva bene, quanto mi amava!
Proprio il ricordo dell’amore di Gesù per lui, che gli aveva dato intima dolcezza di pace, gli faceva ponderare con dolore la mancanza di carità e le disunioni che allora vi erano tra i cristiani e che sarebbero state in tutti i tempi della vita della Chiesa. Lo vedeva, perché lo constatava e lo antivedeva certamente col suo spirito profetico. Questo ci fa capire perché l’Apostolo in tanti modi e tante volte ripete la sua esortazione alla carità fraterna.
Non è una ripetizione che potrebbe sembrare superflua, se non stucchevole, a chi la considera superficialmente; era invece riboccante dal suo cuore pieno di amore nei ricordi dolcissimi e pieno di dolore nelle esperienze attuali che aveva della mancanza di carità tra i fedeli ed in quelle che prevedeva nel futuro.
Già prima S. Giovanni aveva detto nei versetti 7 e 8: Chi ama è nato da Dio e conosce Dio, mentre chi non ama il prossimo non conobbe Dio, perché Iddio è amore. Poi ritorna sullo stesso concetto, unendo intimamente i verbi conoscere e credere, per indicare che la cognizione di Dio è insieme atto di fede amorosa, e ripete la sua commossa definizione di Dio, deducendone la conseguenza: Dio è amore e chi dimora nell’amore in Dio dimora, e Iddio in lui dimora. Aveva detto che la carità fraterna era per noi il segno certo di essere in grazia di Dio, e la virtù che rendeva efficace la nostra preghiera (III, 19-22).
«II perfetto amore espelle il timore»
Ora afferma, a conclusione dell’argomento del nostro stesso interesse nella carità fraterna, quando giunge a perfezione, la nostra sicurezza nel giorno del giudizio: Così abbiamo sicura franchezza nel giorno del giudizio, senza timore di condanna, poiché il perfetto amore espelle il timore, ed il timore implica un castigo.
Saremo senza timore nel giudizio, e senza timore di sventure e di castighi in questo mondo, poiché come Quegli, ossia Gesù, è santo e pieno di amore nel cielo presso il Padre, dove sta come nostro avvocato e propiziatore, così noi pure, imitando la sua santità e la sua carità, saremo senza timore in questo mondo.
Tre argomenti, come si vede, forti per spingere l’anima all’esercizio perfetto della carità. La sicurezza della coscienza, quando teme
di non essere in grazia di Dio. La sicurezza nella preghiera, quando l’anima teme o pensa di non essere degna di essere esaudita, e quindi, quando prega trepidando, con poca fede, anche nelle invocazioni che crede ardenti, commoventi... decisive, e non lo sono, quando nel cuore e nella vita manca la carità perfetta verso Dio e verso il prossimo. Infine, la sicurezza nel giudizio finale innanzi a Dio, conclusione ultima della vita peregrinante nel mondo, conclusione che, per la carità, culmina nella conferma dell’eterna gloria in eterno, e sicurezza nel mondo, dove l’anima passa tra mille prove, tra mille responsabilità e tra mille insidie ed influssi cattivi e diabolici, e per la carità ne è liberata.
Dopo esortazioni così belle e così incalzanti, l’Apostolo, pur continuando il magnifico argomento della carità, nel capitolo seguente viene ad una conclusione che sembrerebbe la fine dell’argomento e non lo è ancora, poiché psicologicamente mostra ancora una volta come era pieno della carità di Gesù Cristo il suo cuore, che aveva riposato sul Cuore del Maestro Divino.
Anche noi, infatti, in un discorso o in una discussione, che ci appassiona, psicologicamente sentiamo il bisogno di confermare l’appassionato argomento con una conclusione, con un vibrato dunque, quasi a fissarlo nell’anima.
Ohi ama Dio non può odiare il fratello
Perciò S. Giovanni soggiunge quasi come tagliente, persuasiva ricapitolazione: Noi (e la Volgata aggiunge dunque) dobbiamo amare Dio, perché Lui per primo amò noi. L’amore di Dio per noi è amore spontaneo di pura benevolenza, perché ci ha creati per amore; e noi dobbiamo amarlo per corrispondere al suo amore, mostrandogli amore con la carità spontanea e sincera verso il prossimo. Sono due amori inseparabili, non può sussistere l’amore a Dio senza l’amore al prossimo, e S. Giovanni lo conferma: Se alcuno dice: Amo Iddio, ed odia
il fratello suo, è mentitore. Odia, nel senso comprensivo di ogni mancanza di carità, come dicemmo. È tanto facile e comune in tanti cristiani ed in tante anime consacrate a Dio lo sfuggire alla legge della carità dicendo: Io non odio quella persona, anzi prego per lei, ma non ci voglio avere rapporti e la sfuggo.
È un’evidente illusione, palliata da quella ipocrita giustificazione: prego per lei. Ipocrita, sì, perché anche nella preghiera, vera o supposta, lungi dall’avere un sentimento di amore, l’anima ha un impeto di avversione e si sfoga con parole e giudizi pungenti, contrari alla persona che si dice di non odiare. Consta dall’esperienza, giacché non è raro che queste ipocrite preghiere si manifestano e sono come la velenosa appendice dei propri sentimenti di avversione.
Quante volte chi scrive ha sentito dire, infatti, da persone senza carità: Io prego per quel miserabile: — Signore, fategli sentire e comprendere la sua malignità... troncate quella lingua malefica... con un castigo positivo e forte mostrate la vostra giustizia... umiliate il suo orgoglio e simili espressioni che rivelano la furente avversione dell’anima e non la pretesa benevolenza di carità *.
Perciò S. Giovanni dice con profonda verità che colui che afferma di amare Iddio ed odia il suo fratello, avversandolo, è un mentitore. E lo conferma con un argomento stringente, che filosoficamente si direbbe ad hominem, argomento dal quale non si può sfuggire: Chi non ama il fratello suo che vede non può amare quel Dio che non vede.
Sembrerebbe quasi un argomento... claudicante, giacché chi odia il suo fratello, potrebbe dire che l’avversa proprio perché lo vede cattivo e perverso. Ma non può vedere in questa fosca luce chi è coperto dalla carità misericordiosa di Gesù Cristo, né può con qualunque scusa sfuggire al comandamento che il Redentore ci ha dato. Perciò l’Apostolo soggiunge prevenendo l’obbiezione che potrebbe farsi: Questo è il comandamento che abbiamo da Lui, da Gesù Cristo: Chi ama Iddio ami anche il fratello suo.
Nei Vangeli non c’è un precetto formulato precisamente in questi termini. Forse S. Giovanni riporta un detto di Gesù, ripetuto dal Maestro Divino, e che egli conservava nel cuore, un detto memorabile, scultoreo, o, come dicevano i greci, un àgrafon od un lòghion, che l’Apostolo volle ricordare ai fedeli ai quali scriveva, per confermare che non si poteva presumere di amare Dio senza amare il prossimo.
S. Clemente Alessandrino cita due volte un àgrafon analogo, attribuito a Gesù: Tu vedi il tuo fratello, tu vedi Dio (Strom 1, 19, 96; II, 15, 70). Il comandamento di Gesù Cristo, ricordato da S. Giovanni, conferma il motivo fondamentale della carità verso il prossimo, che è l’amore di Dio. Si ama il prossimo, perché si vede in esso l’immagine di Dio. Vedendolo in questa luce, non si può riflettere ai difetti che ha o ai torti che ci ha fatto. Si vuol mostrare così che si ama Dio invisibile, amando la sua immagine visibile, in qualunque aspetto si presenti, perché è presentato a noi dal comando divino: Ama il prossimo tuo.
Dio non ci avrebbe dato questo comando, se la sua osservanza avesse implicato un’ingiustizia: Amare chi non lo merita, amare chi manomette con la vita che mena l’immagine viva di Dio. Gesù Cristo è morto per tutti, dunque, ci ha amati tutti; protestò di essere venuto per i peccatori; dunque, espiò le loro iniquità, anche quelle che noi riguardiamo come fatte a noi; dunque dobbiamo amare i fratelli ingiusti e traviati, per amore di Colui che ha dato ad essi la suprema prova dell’amore, morendo per loro.
Potremo noi giudicare male i nostri fratelli ed essere inesorabili nell’avversione verso di loro, quando Gesù dalla Croce li ha giudicati scusandoli: Perdona loro, perché non sanno quello che fanno? Anche noi fummo presenti sul Calvario, anche noi crocifiggemmo Gesù; eravamo uniti nell’empietà e non saremo uniti nella carità, in Lui che ci abbracciò tutti nella sua carità?
Perdona loro era il grido di una carità infinita, che richiamava tutti ed ognuno in particolare: Amatevi come io vi ho amati.
Amo il Padre, immolandomi per la sua gloria e per tutti — voleva dire Gesù — Era questo l’àgrafon, il lòghion del Calvario, che non ammette scuse o ripieghi nell’amore; l’esortazione viva di Chi moriva per doppio amore a Dio ed agli uomini: Chi ama Iddio, ami anche il fratello suo.
Cade la pioggia... e con la pioggia è travolto il pulviscolo sollevato dal vento, come soffocante nebbia... Cade la pioggia, ed i fastidiosi insetti fuggono... cade la pioggia e tra le nubi che si scaricano riappare il cielo sereno e i fiori si aprono nei loro colori, prima offuscati dalla polvere... Moriva Gesù, ed una pioggia di amore cadeva dalla Croce innalzata dall’odio; una pioggia sanguigna d’infinita carità!... Chi può non amare dove irrora l’amore, chi può avere polvere soffocante di avversione e di odio?...
O velenosi insetti di parole pungenti, di giudizi perversi, di animosità frizzanti, come punture di spine, ascoltate la parola di amore del coronato di spine per amore, del piagato per amore...
O sereno cielo della carità, splendi per il suo comandamento che abbiamo da Lui. Chi ama Iddio ami anche il fratello suo.
S. Giovanni lo ripete, e i nostri cuori si aprano come fiori del Calvario, profumati di amore, irrorati di amore, nel fulgore di Colui che ha chinato il capo in un bacio di amore, e tiene aperte le mani in un abbraccio di amore, mani inchiodate dall’amore, perché non si chiudono mai fino alla consumazione dei secoli, e, nella stretta dell’amore, gridano alla terra, alla Chiesa, ai Sacerdoti, alle anime consacrate a Dio: Amatevi, come io vi ho amati.
Come distinguere i falsi dottori dai veri
La carità fraterna, sulla quale insiste tanto S. Giovanni, è il comandamento principale della Legge antica annunziata da Dio, ed è il comandamento di Gesù Cristo, Redentore nostro, il suo comandamento, che definì come nuovo, perché proclamato in un tempo di odio e di guerre, e per il popolo ebreo, in un tempo di isolamento... diremmo, razziale, con vocabolo di moda. Dio, proclamando la suprema legge dell’amore che gli dovevano le creature, e dell’amore scambievole che si dovevano gli uomini tra loro per amore suo, si rivolgeva al popolo eletto, e quindi la legge era ristretta ad esso per necessità riguardava la sua particolare posizione nel mondo. Separato dagli altri popoli, l’amore fraterno non poteva riguardare che l’amore per i propri connazionali. Non era, dunque, come facilmente si asserisce, un precetto imperfetto.
Venuto in terra il Figliuolo di Dio, per redimere e salvare non gli Ebrei soltanto, ma il mondo, ma tutti gli uomini, era logico che il precetto della carità fosse esteso a tutti gli uomini, e perciò fosse una luce nuova per tutti, escludendo ogni divisione ed ogni odio.
Morendo per tutti, Gesù volle unirli tutti nel suo amore, e fondò la Chiesa, ovile di raccolta per le sue pecorelle.
Diamo un esempio recentissimo, per dare un’idea di questa unione di tutti in Gesù: nella stazione sperimentale di piante subtropicali di Sotchi, c’è un grosso albero che è stato battezzato albero dell’amicizia e quindi indirettamente dell’amore, per i frutti diversi che vi maturano. Sullo stesso tronco si trovano i frutti di mandarini giapponesi, di limoni italiani, di pompeimi americani, di arance cinesi, ecc. Si arriva alla cifra di cinquanta diverse varietà di frutti su di un solo albero.
Ebbene, la Croce è il vero albero dell’amore, sul quale debbono maturare, per la carità, i frutti della redenzione di tutti i popoli della terra, senza distinzione di colore, di razza o di abitudini nazionali, uniti in quella dolcissima parola di Gesù Cristo: Amatevi come io vi ho amati.
La carità, quindi, viene nelle anime dalla fede viva in Gesù Cristo che, morendo, ha dato l’esempio della somma carità, confermando col suo Sangue il precetto che aveva dato. Con stretta connessione di idee, nella luce soprannaturale che lo illuminava, S. Giovanni esorta i fedeli alla purezza della fede e li mette in guardia contro i falsi dottori, che con i loro errori mettevano dissensioni profonde nelle anime.
Non è, quindi, come dicono i moderni, per il suo gusto letterario che ritorna sulla necessità di una fede pura, prima di continuare ad insistere sulla carità con nuovi argomenti. Non si tratta di gusto letterario, che potrebbe avere anche l’apparenza di una certa confusione personale nell’ordine delle idee e nell’insegnamento delle verità: non si tratta di un ritorno su concetti già espressi ma di un avviso opportuno e necessario per mettere un saldo fondamento alla pratica della carità.
S. Giovanni, perciò, dice: Diletti, non ad ogni spirito prestate fede, ma mettete alla prova gli spiriti, per sapere se sono da Dio; infatti, molti falsi profeti hanno fatto irruzione nel mondo.
Ogni falso dottore, nel propagare false dottrine sulla fede, le presentava come ispirazione di Dio, contraffacendo i carismi dello Spirito Santo, che allora erano comuni nella Chiesa. Lo Spirito delle tenebre si trasformava in angelo di luce per ingannare le anime e disgregarle nell’unità della fede, e perciò nella unione fraterna della carità.
Non ad ogni spirito prestate fede — dice S. Giovanni — e che cosa intende per spirito? La parola greca, che usa, pneuma, nel significato letterale significa soffio, alito, vento, indipendentemente da ogni altro concetto; ma può significare e designare gli esseri immateriali, come Dio, gli Angeli, i demoni e le anime, per analogia. Il soffio, il vento, l’alito, infatti, non si veggono, e si percepiscono quasi come una cosa immateriale.
La parola pneuma, spirito, si estende pure agl’influssi degli esseri immateriali ed alle persone che agiscono mosse da tali influssi. Si dice, quindi, spirito di verità; spirito di menzogna, spirito maligno; spirito santo, ecc.
Evidentemente S. Giovanni parla di spiriti, intendendo significare quelli che predicavano o insegnavano con l’apparenza della verità o con la mistificazione di carismi o di ispirazioni che non avevano, e mette in guardia i fedeli, perché non si fossero fatti illudere da ipocrite apparenze di verità o di progresso o di ispirazioni soprannaturali. Egli soggiunge, infatti, che molti falsi profeti avevano fatto irruzione nel mondo. Gesù stesso aveva prevenuto gli Apostoli ed i suoi seguaci contro il pericolo di falsi dottori, dicendo: Sorgeranno molti pseudocristi e pseudoprofeti e sedurranno molti (Matt. XXIV, 18, 24).
Al tempo di S. Giovanni già serpeggiavano tra i fedeli false dottrine, e falsi dottori se ne facevano propagatori, quasi fossero stati profeti mandati da Dio, simulando il carisma della profezia che riviveva in forma straordinaria nei primi tempi della Chiesa.
C’era, dunque, necessità di avere un criterio per distinguere nettamente i falsi dottori dai veri, e S. Giovanni lo dà in forma sintetica ma chiarissima: In questo conoscete lo spirito di Dio: ogni spirito il quale professa che Gesù è il Cristo, venuto nella carne (e si sottintende necessariamente: da Maria Vergine) è da Dio, mentre che ogni spirito che non professa questo Gesù, con la sua Madre, non è da Dio, anzi costui, questo spirito, è proprio quello dell’anticristo, del quale avete inteso che viene, anzi è già nel mondo.
Non è arbitrario il pensare che S. Giovanni, parlando di Gesù Cristo venuto nella carne, abbia sottinteso necessariamente da Maria Vergine, e, che quindi, professare che Gesù è il Cristo, credere in Lui, venuto nella umana carne, implica di necessità il credere in Maria SS. Professare Gesù, significa credergli, onorarlo, adorarlo come vero Liglio di Dio, e significa credere, onorare e amare Maria SS. dalla quale, per opera dello Spirito Santo, prese l’umana carne *.
S. Giovanni stava con Maria, alla quale Gesù l’aveva affidato; conviveva con Lei nella stessa casa, in sua; aveva in Lei l’argomento vivo della realtà del Cristo venuto nell’umana carne; era tutto compreso della grandezza e della immacolata purezza della piena di grazia, e non poteva dare come certo contrassegno dello spirito di Dio il credere nel Cristo venuto nella umana carne, senza dare implicitamente, ma luminosamente, come contrassegno dello spirito di Dio il credere in Maria SS.
Chi manca di questa fede, lo intendano i poveri protestanti, non può avere altra caratteristica che quella di anticristo e non può illudersi di avere lo spirito di Dio. È un argomento fortissimo che dovrebbe disingannarli.
In conformità alla dottrina cattolica, secondo la tradizione apostolica, e non secondo una libera, ossia cervellotica, arbitraria interpretazione della sacra Scrittura, è contrassegno dello spirito di Dio, dal quale viene come conseguenza la rettitudine morale. È il contrassegno che diedero gli Apostoli per distinguere i veri profeti dai falsi; è il contrassegno che danno i Padri ed i dottori della Chiesa.
Chi pretende di credere in Gesù senza riconoscere Maria, dissolve Gesù solvit lesum, come traduce bellamente la Volgata; lo dissolve, perché lo divide dalla Madre, ed un figlio, separato dalla Madre, non ha vita, è un misero aborto; e se, nato, volesse vivere o pretendere di vivere senza la madre, prescindendo da lei, o, peggio, rinnegandola con malcelato disprezzo, sarebbe solo un orfano cencioso, sporco, affamato ed abbandonato! Chi è antiMaria diventa per necessità anticristo.
Gli errori, che insinuavano i falsi dottori tra i fedeli erano precisamente contro la reale umanità assunta dal Figlio di Dio in Maria, ed altri errori simili, che tentavano dissolvere l’unità della Chiesa nella carità, in un solo pensiero, in una sola anima, in un solo cuore.
S. Giovanni dice che l'anticristo attualmente è già nel mondo, alludendo agli errori che si diffondevano dai falsi dottori contro l’integrità e l’unità della fede, come già l’aveva inteso nel capitolo secondo (18, 19,22). Con questo non voleva dire che l’anticristo, del quale parla nell’Apocalisse, che si manifesterà alla fine del mondo, fosse già venuto.
Nel secondo capitolo egli lo ritiene come l’insieme delle forze malefiche di errori e di seduzioni che allontanano le anime dalla fede e dalla integrità dei costumi, il che dolorosamente è anche nel nostro tempo e forse più nel nostro tempo.
Gli anticristi del mondo
Per questo subito (S. Giovanni) parla del mondo e dello spirito del mondo, che, allora come oggi, è l’anticristo; parla dei disseminatori di errori, che sono anticristi perché vivono dello spirito del mondo e ad essi contrappone i fedeli ai quali scrive, compiacendosi della integrità della loro fede, ed esclama: Voi da Dio siete, o figliuoli, e li avete vinti gli anticristi, emissari del maligno, come Gesù Cristo ha vinto il mondo, perché è più grande Quegli che è in voi di colui che è nel mondo, dell’anticristo o dei suoi seguaci. Essi dal mondo sono, per questo secondo il mondo parlano ed il mondo li ascolta.
L’errore, infatti, trascina facilmente le anime, perché carezza le loro passioni disordinate ed indulge alla loro vita di corruzione, anzi la incoraggia. I fedeli che sono da Dio non si lasciano sedurre dal
mondo e lo vincono per la forza divina della grazia che opera in loro, per Gesù Cristo. Egli, infatti, disse: Nel mondo avrete tribolazione; ma fatevi animo, io ho vinto il mondo (Giov. XVI, 33).
E come lo aveva vinto, se Egli stesso era perseguitato, e lo fu sino ad essere crocifisso, apparendo come un vinto anziché come un vincitore? Lo vinse con la luce della sua dottrina, con la luce della verità; lo vinse proprio con la Croce, levando sul Calvario il vessillo della vittoria.
Quelli che seguono Gesù Crocifisso e la sua dottrina, predicata dagli Apostoli e dai loro successori, vincono il mondo, vincono gli anticristi. Noi, soggiunge S. Giovanni, noi apostoli, da Dio siamo, ed annunziamo la verità per mandato di Gesù Cristo. Chi conosce Dio ascolta noi, segue non gli errori, ma il magistero della Chiesa, avendo detto Gesù: Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me (Luc. X, 16).
Per la sicurezza del mandato avuto da Gesù Cristo di ammaestrare tutte le genti (Matt. XXVIII, 19) e per questa esplicita parola del Redentore, S. Giovanni soggiunge: Chi non è da Dio non ci ascolta. Da questo riconosciamo lo spirito della verità e lo spirito della menzogna.
Con queste categoriche parole, S. Giovanni esorta i fedeli a non essere divisi per la propaganda dei falsi dottori, ma ad essere uniti in perfetta carità nell’unità della fede. Perciò, con logica connessione di idee, ritorna sull’argomento della carità e dell’amore fraterno, per inculcarlo con motivi anche più forti e luminosi: Diletti, amiamoci l’un l’altro, perché l’amore è da Dio, e chiunque ama è generato da Dio e conosce Iddio. Chi non ama non conosce Iddio, perché Dio è amore.
Dio è amore
Una mirabile definizione di Dio: Iddio è amore, non semplicemente Dio, in una idea generica di divinità, teos nel greco, idea che può riferirsi al concetto di divinità e si diceva persino degl’idoli, ma Iddio, o teos, il vero Dio, l’unico Dio, nell’adorabile Trinità. Se Dio è amore, la definizione vera, e, diremmo, filosofica dell’amore non può darsi che nella luce di Dio, non può approfondirsi che rispecchiandoci
nella essenza stessa di Dio Uno e Trino, in unità perfettissima di natura, e nella Trinità, in perfettissima unione di amore.
Oceano di amore nel quale l’anima può rispecchiarsi per intendere che cosa è amore. I filosofi si sono sforzati di definirlo, e l’hanno chiamato indefinibile, perché o non hanno conosciuto Iddio, come i pagani, o lo hanno rinnegato in una confusione di concetti falsissimi, o addirittura nell’ateismo, come i miseri filosofastri moderni, che si atteggiano a pensatori e nel loro orgoglio non si accorgono di cadere nell’assurdo.
Che cosa intende S. Giovanni per amore fraterno, quando dice: Diletti, amiamoci l’un l’altro, e che cosa intende per amore divino, quando dice che Iddio è amore?
È un concetto difficile da chiarirsi, per capire la grandiosità di quello che dice S. Giovanni. Prima di tutto l’Apostolo qualifica l’amore con la parola greca agape, parola sconosciuta negli scritti precristiani non biblici, nei quali ricorre solo una o due volte. Da agape venne chiamato il banchetto eucaristico, che è il banchetto dell’amore divino e della carità fraterna.
Per i greci pagani l’amore era chiamato eros, dal quale deriva, nella nostra lingua, erotico. L’eros greco, tutto materiale e carnale, si estende ad ogni sentimento focoso, appassionato, specialmente a quello sensuale; è la brama che trascina verso il piacere impuro, verso la nudità maschile o femminile che lo provoca, e perciò i latini lo chiamavano Cupido, deificandolo come un fanciullo bendato che saettava. Cupido, concupiscenza, desiderio di connubio; bendato, perché acceso dalla passione, che, trascinata dal senso, non ragiona, non vede più ciò che è retto, e dardeggia nel cuore, per ferire nei sensi.
Platone, nella elevazione della sua grande mente, innanzi alla quale i moderni filosofastri spariscono come esamfeli di palude che sorgono dal pantano, per suggere e avvelenare di malaria i poveri cervelli umani, tentò idealizzare l’eros nel suo Convivio e lo denominò: desiderio di bellezza corporea, che, evolvendosi, ascende dalla carne allo spirito, e dallo spirito alla bellezza divina, alle idee eterne.
Sforzo che possiamo dire nobile in un pagano, abituato a vedere la divinità nella meravigliosa arte con la quale erano scolpiti gli idoli dell’Olimpo.
Per Platone, quindi, l’amore era una passione carnale, che intensificandosi, si purificava, evidentemente perché non soddisfaceva. Dalla materia passava all’ideale della bellezza, dalla bellezza corporale, che non si restringeva e si confondeva nella sensualità, si elevava nella estetica di tutto il corpo, ed appariva nella luce della bontà, della proporzione, dell’ordine, spirando pace nell’ammirazione.
Da questo, nell’idea di Platone, l’anima poteva assurgere alla bellezza divina, perché, dall’idolo di forme corporali perfette, poteva elevarsi alla bellezza divina, prescindendo dalla materia.
Come si vede, in un pagano, che con la sua profonda ragione era giunto al concetto di Dio come unico, pur vivendo tra numerosi idoli, era un concetto immensamente più nobile di quello dei filosofastri moderni, che confondono l’amore con la sensualità.
La Sacra Scrittura dice che Dio, nel creare le cose materiali, vide che erano buone; le vide nell’ordine delle leggi che le regolavano, e nella bellezza della loro armonia, corrispondente al fine per le quali le creava, compiacendosene. Il suo compiacimento era amore, era come suggello della loro perfezione materiale; vide come l’artista che guarda l’opera d’arte da lui fatta e, compiacendosene, la definisce perfetta. Il suo sguardo è come l’ultima mano alla perfezione dell’opera, perché non vi riconosce difetti.
Come è profonda l’espressione della Sacra Scrittura: Dio disse: Sia fatta la luce. E la luce fu. E Dio vide che la luce era buona. Dio disse: Si radunino le acque in un sol luogo ed apparisca l’arida. E così fu fatto. E Dio nominò terra l’arida, e la raccolta delle acque la chiamò mari. E Dio vide che ciò era buono (Gen. 1, 3, 4, 9, 10).
L’amore, come lo definisce S. Giovanni, l'agape non è una passione purificata, ma è Dio stesso: Iddio è amore. Dio che si dona prima di tutto e dall’eternità, nella generazione del Verbo, del Figlio suo che è nel seno del Padre (Giov. 1, 18), Dio che per il Verbo suo si dona al mondo: Iddio ha tanto amato il mondo, fino a dare l’unico Piglio suo (Giov. Ili, 6). Il Verbo incarnato è la manifestazione suprema di Dio amore, e l’amore di Dio, che per il Figlio suo incarnato ci purifica col suo Sangue, è propiziazione per i nostri peccati e per quelli del mondo intero (I Giov. 1,7). È il mediatore di amore fra noi e Dio, Padre giusto — disse Gesù nella sua sublime preghiera —
io ho fatto loro conoscere il tuo Nome, e lo farò loro conoscere ancora, affinché l’amore col quale mi hai amato, sia in loro, ed io pure sia in loro (Giov. XVII, 26).
Iddio è amore, e l’amore suo non è uno sguardo di compiacimento, ma è una forza potente che ci sospinge all’azione, è la sua grazia che ci rende partecipi della sua natura divina. Per la grazia noi lo amiamo, e la nostra corrispondenza al suo amore, che Egli esige da noi perché ci ama, è frutto della sua medesima grazia, si manifesta e si testifica nella carità, e perciò chi non ama rimane nella morte (III, 14) e chiunque ama è generalo da Dio e conosce Dio.
L’amore vero trasforma l’uomo, lo riscalda di carità operosa verso Dio e verso il prossimo; non è una sterile espressione di parole, ma è amore che si manifesta nella verità sincera e si attiva nelle opere (III, 16). Iddio è amore, e noi, creati ad immagine e somiglianza di Dio, dobbiamo essere amore nella carità. L’amore perfetto scaccia il timore (IV, 16, 18) è fonte di gioia (Giov. XV, 9-12; III, 20) è pace (Giov. XIV, 27).
Di fronte a questa mirabile concezione dell’amore in Dio e in noi, che cosa sono le meschinissime idee umane?
O misere idee, erranti come pipistrelli nella notte, in cerca di insetti, e riposanti nello speco oscuro, capovolti!
Amiamoci l’un l’altro
Quale accento di verità hanno le parole di S. Giovanni: Amiamoci l’un l’altro, perché l’amore è da Dio, e chiunque ama è generato da Dio e conosce Iddio. Chi non ama non conosce Iddio, perché Iddio è amore. La carità diffusa per mezzo dello Spirito Santo che ci fu dato (Rom. V, 5) è da Dio e proviene da Lui. Chiunque ama il prossimo con questo amore soprannaturale infuso da Dio è generato da Dio, è figlio di Dio, perché per lo Spirito Santo, Amore eterno di Dio, possiede in sé un germe divino e conosce Dio; lo conosce abitualmente come presente, secondo l’espressione della parola greca, lo conosce con la vera scienza, per la fede; sa che Dio è sommo bene che brama effondersi e si effonde nella creazione e nella grazia; lo sa e cerca imitarlo effondendosi nella carità ed osservando la Legge di Dio, poiché
tutto il decalogo non è altro che la legge della carità verso Dio e verso il prossimo.
Chi non ama il prossimo con amore soprannaturale, chi non ha per il prossimo rispetto, stima, bontà, servitù santa di soccorso, tenerezza di compatimento, dolcezza di tratto, ma, al contrario, si contrasta, ne mormora, lo giudica male, lo guarda con antipatia, gli serba rancore, è facile al ripicco o alla vendetta, ecc. non conobbe Dio, non è giunto nemmeno all’inizio della vera conoscenza di Dio, come indica l’espressione greca, ouk egno, perché Iddio è amore.
La misura, dunque, della nostra vita spirituale è la nostra carità verso il prossimo. Se manchiamo di carità, dolorosamente non stiamo neppure all’inizio della vita cristiana e tanto meno della perfezione. È per il rammarico, che gli cagiona la mancanza di carità, segno che non si sta neppure all’inizio della vita cristiana e perfetta, che S. Giovanni esce in quella vibrante definizione di Dio: Iddio è amore!
È l’esplosione di un affetto intensamente vissuto da lui, che aveva attinto dal Cuore di Gesù, sul quale aveva riposato, dall’intima conversazione con l’Unigenito di Dio, fattosi uomo e sacrificatosi per noi. Questo amore gli suggerì l’espressione forte: Chi non ama non conobbe Iddio, ouk egno, non è giunto neppure all’inizio della conoscenza di Dio.
Anche noi, nel parlare comune, per notare l’errore altrui, che ci sorprende e ci addolora, diciamo fortemente: Non sei neppure all’inizio della virtù, ti mancano i primi elementi della carità, ecc. Per questo S. Giovanni rafforza la sua espressione: Iddio è amore, richiamando le anime alla somma manifestazione del suo amore tra gli uomini, dicendo: Per questo rifulse l’amore di Dio tra noi; il proprio Figlio suo, l’Unigenito, ha mandato Iddio nel mondo, affinché avessimo la vita per mezzo di Lui. In questo sta l’amore: non noi amammo Iddio, ma Lui amò noi, e mandò il Figlio suo come propiziazione per i peccati nostri. Non poteva, dunque, Dio darci una maggiore manifestazione di amore per noi.
Questa riflessione rafforza la sublime definizione che S. Giovanni ha data di Dio, come sintesi mirabile dei suoi divini attributi, spinta, perciò, all’anima cristiana nell’esercizio della carità.
L’Apostolo aveva detto che Dio è luce (1, 5), perché è somma verità e santità, per esortare le anime a credere fermamente. Ma non bastava la fede, occorrevano le opere, e le opere della fede si sintetizzano nella carità; perciò S. Giovanni manifesta un attributo essenziale di Dio, che poteva spingere alla carità, dicendo: Iddio è amore.
È mirabile! È un volo sublime di aquila al di sopra di ogni concetto che l’anima può avere di Dio. È il luminoso sorpasso di amore al di sopra delle povere idee che l’uomo ha su Dio o si è formato di Dio.
Perciò S. Agostino, ammirando questa definizione divina, che da sola può accendere l’anima di amore per Lui e può espanderla nella carità, per suo amore, esclama: Che cosa potrebbe dirsi di più grande, o fratelli? Se in tutte le pagine di questa epistola ed in tutte le pagine delle Scritture nulla udissimo intorno alla lode dell’amore, e questo solo sentissimo dalla voce dello Spirito di Dio, che Iddio è amore, nulla di più grande vi dovremmo cercare.
Iddio è amore, non è solo una definizione astratta di Dio; Dio è ancora nella sua natura divina e nella sua adorabile Trinità, unita nell’amore dello Spirito Santo, persona divina che procede dal Padre e dal Figliuolo e li unisce nell’eterna carità.
« Non noi amammo Dio, ma Dio amò noi »
Iddio è amore rifulgendo tra noi con la Redenzione dell’uomo, per mezzo del suo Figliuolo umanato, fatto vittima di propiziazione per i nostri peccati; manifestazione luminosa della carità di Dio. La carità, l’amore è diffusivo, e come la divina bontà si è effusa nella creazione, rivelando la potenza di Dio, così l’amore si è effuso nella Redenzione. Voleva espandersi e creò l’uomo. Lo creò libero, e permise che per la libertà fosse anche caduto nel peccato, ma lo permise per espandere il suo amore nella Redenzione. Poteva forzare l’uomo a non peccare, ma non lo fece, diremmo, per forzare quasi se stesso a manifestarsi nella carità, nell’amore. Nella Redenzione l’amore si manifestò proprio all’uomo. Per questo l’Apostolo soggiunge: In questo sta l’amore'. Non noi amammo Dio, ma Lui amò noi, e mandò il Figlio suo come propiziazione per i nostri peccati.
L’espressione non noi amammo Iddio, ma Lui amò noi è logica,
mirabilmente logica, perché Dio ci creò per manifestare a noi il suo amore col supremo atto di amore: la Redenzione, per la Passione e la morte del Verbo umanato, fatto vittima per noi.
Mirabile mistero di amore, che potremo vedere solo nell’eternità, nel suo splendore: Amore nel crearci, amore nel farci liberi; amore sì, osiamo dirlo, nel permettere la nostra caduta, per farci più belli con la sua carità infinita, dandoci il suo Figliuolo, e per Lui effondendo in noi lo Spirito Santo, il suo eterno Amore. Padre amoroso che ha permesso che il suo figliolino cadesse, giocando liberamente nel campo, per sollevarlo nelle sue braccia, tempestandolo di baci mentre piange ed ingemmandolo di perle per quante lacrime ha sparso, nell’espansione dell’amore eterno che lo rende felice.
Iddio è amore, divino artista che ha fatto, creando l’uomo, un’immagine sua e, vedendola deteriorata dal peccato, l’ha fatta più bella, non con i colori della primitiva tavolozza, ma col Sangue del suo Unigenito, che rende la creatura conforme alla sua immagine sostanziale.
Amore mirabile, che la nostra povera mente non può intendere; amore per il quale si smarrisce, lamentandosi con Dio, ma che la Chiesa canta nella luce dello Spirito Santo con un’espressione che appare paradossale, ma che abbraccia l’amore di Dio, in una stretta di riconoscenza: O felix culpa, o colpa felice che ci donò un Redentore così grande! E più smarrendosi nella riconoscenza canta: o certe necessarium Adae peccatum, o certamente necessario il peccato di Adamo, che fu cancellato dalla morte di Cristo.
Espressioni ardite, che vorremmo dire esagerate? No, espressioni di riconoscente amore per Dio, che per primo ci amò, perché noi lo amassimo.
Psicologicamente, anche l’amore umano non si accende che quando la prima favilla scocca dalla persona che si vuole amare. Un sorriso può far risplendere un volto bello, e determinare in chi lo raccoglie un amore di simpatia; una parola buona o un gesto, che rivela un cuore ed un’anima buona, può suscitare un amoroso apprezzamento di chi, manifestandosi a noi, ci si rivela. Un sacrificio, sopportato per nostro amore, ci fa piangere di tenerezza per chi lo ha fatto e ci trasporta con tutto il cuore verso di lui. Una manifestazione di amore tocca il nostro cuore e lo costringe ad una corrispondenza di amore.
Anche il bimbo sorride alla mamma, se questa per prima gli sorride; è attratto alla mamma, se essa per prima gli fa suggere la vita dal suo petto; si stringe alla mamma e riposa sul suo cuore, se la mamma l’addormenta cantando, lo dondola .carezzandogli con lo sguardo dolcissimo gli occhi che si chiudono in un amoroso abbandono, e dormendo sorridono, e il bimbo, sorridendo, muove le labbra come se ancora succhiasse.
O amorosissimo Iddio non è tutto un sorriso tuo la creazione nelle tue meraviglie, che ci fanno scorgere in pallido riflesso la tua grandezza e la tua bellezza?
E non fu un sorridente soffio di amore, un soffio tuo, l’anima che infondesti nel corpo che si formava tra i misteri della mamma che ci generava? E non fu un meraviglioso gesto di amore il tuo, nella grazia che ci infondesti nel Battesimo?
O infinita bontà che ci redense col sacrificio del Figlio tuo; o infinita carità del Figlio tuo che ci alimenta di sé nell’Eucaristia; o Spirito Santo Dio, che spiri dal Padre e dal Figlio, e, spirando in quella infinita altezza, ti degni riempirci di te, scendendo fino a noi, o amore di Dio, come ci ami! Coi tuoi doni ci sorridi, con la tua dolcezza ci carezzi, con la tua grazia ci abbracci, con la tua misericordia ci fai riposare nella tua pace, ci rassereni nelle nostre tempeste, ci addolcisci nelle nostre amarezze, ci porti nel gaudio eterno, o Amore Eterno, o Dio infinito come il Padre e il Figlio, o Dio che sei Amore!
Il segno che Dio è in noi...
E qual’è la conseguenza di questo infinito amore che viene a noi dall’adorabile Trinità? La trae S. Giovanni con un argomento a fortiori, cioè con più forte ragione, dicendo: Diletti, se a tal punto Dio amò noi, anche noi dobbiamo scambievolmente amarci. Se Dio ha amato gli uomini tanto inferiori a Lui per natura, se li ha amati, pur essendo essi peccatori, anche noi, che siamo della stessa natura, maggiormente dobbiamo amarci scambievolmente (anche quando i nostri fratelli sono difettosi, anche quando ci urtano) per amore di Dio che ci ha amati. Nessuna scusa può esimerci dal dovere della carità, e nessuna mancanza di carità può essere giustificata. Il giudizio, che subiremo dinanzi a Gesù Cristo alla fine del mondo, sarà tutto sulla carità per meritare la sentenza di gloria, e sulle mancanze di carità per meritare la sentenza di dannazione.
Ero affamato, e mi avete dato da mangiare... venite benedetti...
Ero affamato, e non mi avete dato da mangiare, andate maledetti nel fuoco eterno (Matt. XXV, 31-46).
Iddio è amore; dunque, agire contro la carità è agire contro Dio, in qualunque modo noi pretendiamo scusare le nostre mancanze di carità.
S. Giovanni insiste sulla carità e sull’amore fraterno, proprio perché la carità è il precetto più importante per la vita della Chiesa, ed è la manifestazione pratica del nostro amore a Dio. Perciò, insistendo, dice: Iddio nessuno mai l’ha contemplato. Sì, ci sono i Santi contemplativi che lo hanno contemplato con l’amore e per l’amore nell’orazione, ma la Divinità non può essere contemplata com’è, faccia a faccia, da nessun occhio mortale e neppure da nessun intelletto mortale.
Qualunque affermazione contraria a questa verità è errore, è eresia condannata dalla Chiesa e condannata dalla logica. Siamo troppo meschini e ristretti per poter vedere Dio; anche nell’eternità non possiamo contemplarlo e bearci di Lui, senza un lume speciale che è chiamato il lume della gloria. Non possiamo vederlo nella vita terrena, ma per la carità possiamo sentirlo in noi, poiché se ci amiamo l’un l’altro, Dio in noi dimora con la sua grazia, e l’amore per Lui in noi è giunto a perfezione, perché la carità fatta per amor suo ritorna a Dio come corrispondenza all’amore che Egli ha avuto ed ha per noi.
Chi vuole controllare se sta in grazia di Dio e se lo Spirito Santo in lui dimora può farlo con certezza, vedendo il grado di perfezione della sua carità verso il prossimo, poiché la carità è un segno della grazia divina in noi, ed è un frutto dello Spirito Santo, che ci attesta la sua presenza in noi. In questo, cioè nella carità che abbiamo, conosciamo che Lui, Dio, è in noi e noi in Lui, nel fatto, cioè, constatando, per la carità, che Egli, Dio, del suo Spirito ci ha fatto dono.
L’inabitazione di Dio in noi, per la grazia, e l’azione dello Spirito Santo in noi, con i suoi doni, hanno, dunque, un controllo certo nella carità fraterna. Chi manca di carità deve ponderarlo, poiché dalle
sue mancanze di carità può dedurre con certezza che non è in grazia di Dio e che non è animato dallo Spirito Santo.
Gesù Cristo è venuto sulla terra come Salvatore per unirsi a Dio, per attrarre in noi la grazia divina; per questo ci ha dato come precetto suo particolare la carità. È questo il fuoco che venne a portare sulla terra e che bramò che si accendesse; è questo l’esempio vivo che ci diede, salvandoci col suo sacrifizio sanguinoso; esempio che volle confermare nell’ultima cena, lavando i piedi ai suoi apostoli. Li lavò come a pellegrini sulla terra, e li esortò a lavarsi scambievolmente i piedi, per dire che dovevano amarsi facendosi servi degli altri ed aiutandoli a peregrinare sulla terra. Dette l’esempio Egli, signore e maestro, e si umiliò amorosamente ai piedi degli Apostoli, per dire che la carità non poteva esercitarsi riguardando gli uomini come inferiori o come servi, ma nell’unione della stima, del rispetto e dell’aiuto.
S. Giovanni non lo disse esplicitamente, ma nell’esortare con luminosi argomenti alla carità, perché Dio abiti in noi e noi in Dio, e perché lo Spirito Santo operi in noi, non potette non correre col pensiero a Gesù Cristo, Salvatore del mondo, espressione mirabile della carità di Dio verso gli uomini ed esempio vivo di carità; constatato da lui e dagli Apostoli. Per questo soggiunge, con nesso logico e psicologico a quello che animava il suo cuore nella carità: Noi abbiamo contemplato ed attestiamo che il Padre mandò il Figlio come Salvatore del mondo.
La frase non è staccata dal contesto precedente, come potrebbe apparire, ma ne è come il suggello; Io vi parlo così non di mia iniziativa — voleva dire S. Giovanni — non per esprimere un’opinione o una dottrina, ma per manifestarvi quello che abbiamo contemplato in Gesù Cristo, noi Apostoli; e quello che abbiamo ascoltato da Lui, lo attestiamo come testimoni oculari, poiché Egli fu mandato dal Padre come Salvatore del mondo, e lo salvò per l’infinita carità del Padre che lo mandò; lo salvò con la manifestazione somma della sua carità, immolandosi.
Per intendere questa manifestazione di amore del Padre e del Figlio è necessario riconoscere e credere che Gesù Cristo è il Figlio di Dio; senza questa fede è impossibile capire l’infinito amore di Dio e possedere la sua grazia; è impossibile corrispondere al suo amore con la carità verso il prossimo.
Fin dal tempo di S. Giovanni serpeggiavano errori contro la divinità di Gesù Cristo e la realtà della sua Incarnazione; l’Apostolo scrisse il suo Vangelo proprio per confermare i fedeli nella verità. Anche nelle sue lettere insiste su questo punto fondamentale della fede, che costituisce il motivo più forte della carità fraterna raccomandata da Gesù Cristo. Perciò, con logica connessione di idee, soggiunge: Chiunque professa che Gesù è il figlio di Dio, Iddio in lui dimora ed egli in Dio. E noi, Apostoli e fedeli, abbiamo accolto con fede l’amore che Iddio ha in noi, avendo mandato a noi il suo Figliuolo. E ripete il suo ritornello mirabile che ferve nel suo cuore: Iddio è amore, e chi dimora nell’amore, in Dio dimora, e Iddio in lui dimora.
La fede vera, profondamente vissuta, ci fa intendere l’amore di Dio per noi, e l’amore di Dio per noi ci spinge alla riconoscenza ed all’amore per Lui, testimoniandolo a Lui per la carità. Così noi siamo certi di possedere la vera comunione con Dio-Amore, con l’Amore sostanziale, lo Spirito Santo, presente nei nostri cuori.
È veramente commovente l’insistenza con la quale S. Giovanni raccomanda la carità e l’amore fraterno. Egli ne aveva il cuore pieno e nello stesso tempo aveva la dolorosa esperienza di tanta mancanza di carità e di tanta disunione tra i fedeli ai quali si rivolgeva. Era stato da Gesù prediletto, e sapeva per dolcissime reminiscenze che cosa significava amare. Avrebbe voluto che i cristiani si fossero amati come Gesù Lo aveva prediletto. In quante maniere Gesù gli aveva dimostrato di prediligerlo, tanto che, ripetutamente, S. Giovanni nel suo Vangelo non sa designarsi che con questo attributo di amore: il discepolo che Gesù prediligeva! Non poteva, dunque, inculcare la carità senza ricordare l’amore di Gesù per lui. Le parole di Gesù: Amatevi come io vi ho amati erano in lui vive e palpitanti, nel ricordo dell’amore particolare che Gesù aveva avuto per lui.
È un fenomeno psicologico che si realizza anche in noi: È più vivo nel nostro cuore il ricordo di un trapassato che ci ha voluto particolarmente bene, e non possiamo rievocarlo senza dire: Quanto mi voleva bene, quanto mi amava!
Proprio il ricordo dell’amore di Gesù per lui, che gli aveva dato intima dolcezza di pace, gli faceva ponderare con dolore la mancanza di carità e le disunioni che allora vi erano tra i cristiani e che sarebbero state in tutti i tempi della vita della Chiesa. Lo vedeva, perché lo constatava e lo antivedeva certamente col suo spirito profetico. Questo ci fa capire perché l’Apostolo in tanti modi e tante volte ripete la sua esortazione alla carità fraterna.
Non è una ripetizione che potrebbe sembrare superflua, se non stucchevole, a chi la considera superficialmente; era invece riboccante dal suo cuore pieno di amore nei ricordi dolcissimi e pieno di dolore nelle esperienze attuali che aveva della mancanza di carità tra i fedeli ed in quelle che prevedeva nel futuro.
Già prima S. Giovanni aveva detto nei versetti 7 e 8: Chi ama è nato da Dio e conosce Dio, mentre chi non ama il prossimo non conobbe Dio, perché Iddio è amore. Poi ritorna sullo stesso concetto, unendo intimamente i verbi conoscere e credere, per indicare che la cognizione di Dio è insieme atto di fede amorosa, e ripete la sua commossa definizione di Dio, deducendone la conseguenza: Dio è amore e chi dimora nell’amore in Dio dimora, e Iddio in lui dimora. Aveva detto che la carità fraterna era per noi il segno certo di essere in grazia di Dio, e la virtù che rendeva efficace la nostra preghiera (III, 19-22).
«II perfetto amore espelle il timore»
Ora afferma, a conclusione dell’argomento del nostro stesso interesse nella carità fraterna, quando giunge a perfezione, la nostra sicurezza nel giorno del giudizio: Così abbiamo sicura franchezza nel giorno del giudizio, senza timore di condanna, poiché il perfetto amore espelle il timore, ed il timore implica un castigo.
Saremo senza timore nel giudizio, e senza timore di sventure e di castighi in questo mondo, poiché come Quegli, ossia Gesù, è santo e pieno di amore nel cielo presso il Padre, dove sta come nostro avvocato e propiziatore, così noi pure, imitando la sua santità e la sua carità, saremo senza timore in questo mondo.
Tre argomenti, come si vede, forti per spingere l’anima all’esercizio perfetto della carità. La sicurezza della coscienza, quando teme
di non essere in grazia di Dio. La sicurezza nella preghiera, quando l’anima teme o pensa di non essere degna di essere esaudita, e quindi, quando prega trepidando, con poca fede, anche nelle invocazioni che crede ardenti, commoventi... decisive, e non lo sono, quando nel cuore e nella vita manca la carità perfetta verso Dio e verso il prossimo. Infine, la sicurezza nel giudizio finale innanzi a Dio, conclusione ultima della vita peregrinante nel mondo, conclusione che, per la carità, culmina nella conferma dell’eterna gloria in eterno, e sicurezza nel mondo, dove l’anima passa tra mille prove, tra mille responsabilità e tra mille insidie ed influssi cattivi e diabolici, e per la carità ne è liberata.
Dopo esortazioni così belle e così incalzanti, l’Apostolo, pur continuando il magnifico argomento della carità, nel capitolo seguente viene ad una conclusione che sembrerebbe la fine dell’argomento e non lo è ancora, poiché psicologicamente mostra ancora una volta come era pieno della carità di Gesù Cristo il suo cuore, che aveva riposato sul Cuore del Maestro Divino.
Anche noi, infatti, in un discorso o in una discussione, che ci appassiona, psicologicamente sentiamo il bisogno di confermare l’appassionato argomento con una conclusione, con un vibrato dunque, quasi a fissarlo nell’anima.
Ohi ama Dio non può odiare il fratello
Perciò S. Giovanni soggiunge quasi come tagliente, persuasiva ricapitolazione: Noi (e la Volgata aggiunge dunque) dobbiamo amare Dio, perché Lui per primo amò noi. L’amore di Dio per noi è amore spontaneo di pura benevolenza, perché ci ha creati per amore; e noi dobbiamo amarlo per corrispondere al suo amore, mostrandogli amore con la carità spontanea e sincera verso il prossimo. Sono due amori inseparabili, non può sussistere l’amore a Dio senza l’amore al prossimo, e S. Giovanni lo conferma: Se alcuno dice: Amo Iddio, ed odia
il fratello suo, è mentitore. Odia, nel senso comprensivo di ogni mancanza di carità, come dicemmo. È tanto facile e comune in tanti cristiani ed in tante anime consacrate a Dio lo sfuggire alla legge della carità dicendo: Io non odio quella persona, anzi prego per lei, ma non ci voglio avere rapporti e la sfuggo.
È un’evidente illusione, palliata da quella ipocrita giustificazione: prego per lei. Ipocrita, sì, perché anche nella preghiera, vera o supposta, lungi dall’avere un sentimento di amore, l’anima ha un impeto di avversione e si sfoga con parole e giudizi pungenti, contrari alla persona che si dice di non odiare. Consta dall’esperienza, giacché non è raro che queste ipocrite preghiere si manifestano e sono come la velenosa appendice dei propri sentimenti di avversione.
Quante volte chi scrive ha sentito dire, infatti, da persone senza carità: Io prego per quel miserabile: — Signore, fategli sentire e comprendere la sua malignità... troncate quella lingua malefica... con un castigo positivo e forte mostrate la vostra giustizia... umiliate il suo orgoglio e simili espressioni che rivelano la furente avversione dell’anima e non la pretesa benevolenza di carità *.
Perciò S. Giovanni dice con profonda verità che colui che afferma di amare Iddio ed odia il suo fratello, avversandolo, è un mentitore. E lo conferma con un argomento stringente, che filosoficamente si direbbe ad hominem, argomento dal quale non si può sfuggire: Chi non ama il fratello suo che vede non può amare quel Dio che non vede.
Sembrerebbe quasi un argomento... claudicante, giacché chi odia il suo fratello, potrebbe dire che l’avversa proprio perché lo vede cattivo e perverso. Ma non può vedere in questa fosca luce chi è coperto dalla carità misericordiosa di Gesù Cristo, né può con qualunque scusa sfuggire al comandamento che il Redentore ci ha dato. Perciò l’Apostolo soggiunge prevenendo l’obbiezione che potrebbe farsi: Questo è il comandamento che abbiamo da Lui, da Gesù Cristo: Chi ama Iddio ami anche il fratello suo.
Nei Vangeli non c’è un precetto formulato precisamente in questi termini. Forse S. Giovanni riporta un detto di Gesù, ripetuto dal Maestro Divino, e che egli conservava nel cuore, un detto memorabile, scultoreo, o, come dicevano i greci, un àgrafon od un lòghion, che l’Apostolo volle ricordare ai fedeli ai quali scriveva, per confermare che non si poteva presumere di amare Dio senza amare il prossimo.
S. Clemente Alessandrino cita due volte un àgrafon analogo, attribuito a Gesù: Tu vedi il tuo fratello, tu vedi Dio (Strom 1, 19, 96; II, 15, 70). Il comandamento di Gesù Cristo, ricordato da S. Giovanni, conferma il motivo fondamentale della carità verso il prossimo, che è l’amore di Dio. Si ama il prossimo, perché si vede in esso l’immagine di Dio. Vedendolo in questa luce, non si può riflettere ai difetti che ha o ai torti che ci ha fatto. Si vuol mostrare così che si ama Dio invisibile, amando la sua immagine visibile, in qualunque aspetto si presenti, perché è presentato a noi dal comando divino: Ama il prossimo tuo.
Dio non ci avrebbe dato questo comando, se la sua osservanza avesse implicato un’ingiustizia: Amare chi non lo merita, amare chi manomette con la vita che mena l’immagine viva di Dio. Gesù Cristo è morto per tutti, dunque, ci ha amati tutti; protestò di essere venuto per i peccatori; dunque, espiò le loro iniquità, anche quelle che noi riguardiamo come fatte a noi; dunque dobbiamo amare i fratelli ingiusti e traviati, per amore di Colui che ha dato ad essi la suprema prova dell’amore, morendo per loro.
Potremo noi giudicare male i nostri fratelli ed essere inesorabili nell’avversione verso di loro, quando Gesù dalla Croce li ha giudicati scusandoli: Perdona loro, perché non sanno quello che fanno? Anche noi fummo presenti sul Calvario, anche noi crocifiggemmo Gesù; eravamo uniti nell’empietà e non saremo uniti nella carità, in Lui che ci abbracciò tutti nella sua carità?
Perdona loro era il grido di una carità infinita, che richiamava tutti ed ognuno in particolare: Amatevi come io vi ho amati.
Amo il Padre, immolandomi per la sua gloria e per tutti — voleva dire Gesù — Era questo l’àgrafon, il lòghion del Calvario, che non ammette scuse o ripieghi nell’amore; l’esortazione viva di Chi moriva per doppio amore a Dio ed agli uomini: Chi ama Iddio, ami anche il fratello suo.
Cade la pioggia... e con la pioggia è travolto il pulviscolo sollevato dal vento, come soffocante nebbia... Cade la pioggia, ed i fastidiosi insetti fuggono... cade la pioggia e tra le nubi che si scaricano riappare il cielo sereno e i fiori si aprono nei loro colori, prima offuscati dalla polvere... Moriva Gesù, ed una pioggia di amore cadeva dalla Croce innalzata dall’odio; una pioggia sanguigna d’infinita carità!... Chi può non amare dove irrora l’amore, chi può avere polvere soffocante di avversione e di odio?...
O velenosi insetti di parole pungenti, di giudizi perversi, di animosità frizzanti, come punture di spine, ascoltate la parola di amore del coronato di spine per amore, del piagato per amore...
O sereno cielo della carità, splendi per il suo comandamento che abbiamo da Lui. Chi ama Iddio ami anche il fratello suo.
S. Giovanni lo ripete, e i nostri cuori si aprano come fiori del Calvario, profumati di amore, irrorati di amore, nel fulgore di Colui che ha chinato il capo in un bacio di amore, e tiene aperte le mani in un abbraccio di amore, mani inchiodate dall’amore, perché non si chiudono mai fino alla consumazione dei secoli, e, nella stretta dell’amore, gridano alla terra, alla Chiesa, ai Sacerdoti, alle anime consacrate a Dio: Amatevi, come io vi ho amati.
Sac. Dolindo Ruotolo
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